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Tesi e tesine

Il caso del prestigiatore: non capire di aver capito. Di Valentina Silvestri

Ho scelto di parlare del caso di A.,che ho portato anche in una supervisione di gruppo , mossa da una frase che mi era stata rivolta dal ragazzo e che mi è risuonata dentro per molto tempo : “Sei la madre che vorrei!”. Una frase che, di solito, a chi fa il mio lavoro, ovvero l’educatrice in una Comunità per Minori, dovrebbe in qualche modo far piacere o comunque suscitare una reazione positiva ,ma che a me ha provocato confusione e incredulità, come se fosse stata del tutto inaspettata e, soprattutto, non assolutamente ricambiata.

Mentre pensavo a questa frase nei giorni successivi mi sentivo in colpa e mi ripetevo di non aver assolutamente capito questo ragazzo, di averlo tenuto anche piuttosto a distanza, proprio perché avevo una sorta di difficoltà ad entrarci in relazione, che non mi permetteva, appunto, di capire chi realmente fosse. La mia domanda, infatti, al supervisore ed ai miei colleghi è stata proprio di aiutarmi a capire A. , in modo da migliorare la mia relazione con lui.
Come anticipavo, lavoro in una Comunità per Minori, nella quale svolgo la funzione di co-coordinatrice e di solito, proprio per questo ruolo, sono la prima, insieme al direttore, ad accogliere i ragazzi al momento del loro ingresso in Comunità. Quando ho incontrato A. era una mattina di metà dicembre, mancavano pochi giorni al Natale, ma sarebbe stato inserito lo stesso, nonostante le imminenti vacanze, perché la situazione a casa sua era divenuta insostenibile; A. e sua madre, di ritorno a casa dopo un periodo di degenza del ragazzo in ospedale , si erano ritrovati senza elettricità, perché la signora non aveva possibilità di pagare le bollette, quindi il suo inserimento è stato fatto con una relativa urgenza.

La storia di A.
A. ha 14 anni ed è di origine africana; dopo aver perso il padre quando aveva solo due anni, è rimasto con la madre ed il fratello M., molto più grande di lui, che, però ha lasciato il nucleo abitativo da diversi anni e vive da solo, non interessandosi, a quanto pare, alla madre ed al fratello, neanche dal punto di vista economico. Il nucleo è passato in carico ai Servizi Sociali dopo l’assegnazione di un alloggio di edilizia popolare. In un primo momento la situazione si presentava abbastanza gestibile, con la madre di A. che lavorava presso una cooperativa,occupandosi di pulizie e i supporti forniti dai Servizi per aiutare la signora a conciliare il lavoro e la cura del figlio minore, che , durante le scuole elementari, è stato collocato dalla madre presso un collegio di suore a convitto, trascorrendo con la signora soltanto il fine settimana.
Successivamente, però, una serie di operazioni chirurgiche della madre hanno causato il suo licenziamento per il superamento del limite di malattia consentiti.
Da questo momento sono iniziati sia i problemi economici della famiglia, che i problemi di salute di A., che ha iniziato a mostrare sintomi fisici sempre più persistenti, tali da impedirgli di frequentare la scuola e che lo hanno poi condotto ad un lungo ricovero in Neuropsichiatria infantile. Il ragazzo, infatti, aveva iniziato a lamentare problemi alla schiena , che man mano sono stati affiancati da forti vertigini, giramenti di testa e svenimenti e successivamente dall’incapacità di camminare senza supporti, così come di leggere e scrivere. A. riferiva , infatti, di vedere solo delle grandi macchie nere al posto delle frasi in un libro e ,quando provava a leggere, doveva interrompere per i forti capogiri.
Durante il ricovero in ospedale, durato quasi un mese, non sono stati riscontrati al ragazzo dei problemi di natura organica, tali da causare tale sintomatologia, ma un tono dell’umore deflesso e una sofferenza psichica. Alla dimissione, dopo che A. aveva avuto un miglioramento nella sintomatologia senza apparente motivo, è stato prescritto al ragazzo un antidepressivo .
Un altro aspetto emerso durante il ricovero e riportato dall’Assistente Sociale, durante la presentazione del caso di A., è che la madre è stata scoperta da un medico esortare il ragazzo a dire di non riuscire ancora a camminare, in modo da prolungare la loro permanenza in ospedale. Cosa poi confermata successivamente dal ragazzo all’educatore che lo affiancava, mostrando un notevole sentimento di vergogna nei confronti del gesto della madre.

L’inserimento in comunità e la magia
Il giorno del suo inserimento in comunità la cosa che mi ha più colpita di A. è stato un mazzo di carte, che aveva costantemente in movimento tra le sue mani e che mi ha presentato come il suo “antistress”. Non era un mazzo di carte normali, ma specifiche per la “cartomagia”, che ben presto A. mi spiega essere la sua grande passione.
Il ragazzo, fin da subito, si è mostrato come molto adeguato al contesto, educato, sempre pronto ad aiutare gli educatori, capace di stare nel gruppo dei pari e di diventarne una sorta di leader positivo. Allo stesso tempo ,però, la mia sensazione era sempre quella di sentirlo “sfuggente”, lontano, non comprensibile, inafferrabile. La sensazione era proprio quella di non riuscire ad entrare in contatto con lui, nonostante i suoi abbracci, le sue frasi , i suoi comportamenti anche affettuosi. Era come se ci fosse un “trucco” dietro i suoi comportamenti, che tutto quello che mostrava non fosse reale ,ma che io non riuscivo a trovare la chiave per aprire la barriera dietro la quale si nascondeva. Mi rendevo conto di questo perché, nella mia relazione con lui, sentivo il forte desiderio di coglierlo in flagranza , di svelare l’inganno. Mi sembrava, infatti, che A. si rifugiasse dietro i suoi trucchi di magia ed il suo spiccato umorismo, in modo da confondere il suo interlocutore e non farsi capire realmente.
Parlando in supervisione proprio di queste mie sensazioni, quello che è emerso mi ha aiutato a riflettere sul fatto che io lo stessi capendo molto più di quanto credessi, proprio perché avevo scorto i suoi tentativi di non farsi capire, di nascondersi, di mostrarsi autonomo ed adeguato per celare altro. Il ragazzo utilizzava spesso delle espressioni particolari per autodefinirsi , ovvero “sono intoccabile”, oppure rispondeva alle mie richieste e verifiche delle sue attività dicendo: “ho fatto tutto, io sono perfetto!”. Questa sua sorta di onnipotenza,però, nascondeva un’immensa fragilità, che nel corso del tempo si è man mano svelata. A., infatti, che, dopo l’inserimento in comunità non aveva manifestato più, improvvisamente, i sintomi fisici che a lungo lo avevano colpito, ha , però, iniziato ad avere episodi in cui ,dopo aver fissato un punto senza parlare per diverso tempo, iniziava a piangere in modo inconsolabile, quasi istrionico, all’apparenza senza motivo e senza spiegazione alcuna. Durante questi pianti il ragazzo non riusciva a parlare con gli educatori o a spiegare cosa gli stesse succedendo, ma affermava solo di sentire una forte tristezza e chiedeva vicinanza fisica e supporto emotivo.
Più assistevo a questi episodi e più mi meravigliavo di quanto mi sentissi poco partecipe della sua sofferenza, poco empatica nei suoi confronti, ma nello stesso tempo avvertissi una sensazione di impotenza , di confusione, di non comprensione. La mia sensazione però era condivisa con il resto dell’equipe educativa; a tutti noi, infatti, il ragazzo sembrava richiedere attenzioni, cure, attraverso queste modalità, che , però,allo stesso tempo ci lasciavano interdetti perché non ci sembravano naturali e ci tenevano paradossalmente a distanza.
Tutta la mia relazione con A. si giocava su un’oscillazione tra vicinanza e distanza emotiva, tra sensazione di comprensione e di inafferrabilità, come se davvero la parola che usava per definirsi fosse vera , mi sembrava “intoccabile”, nonostante gli abbracci, nonostante l’affetto, era intoccabile ad un livello più profondo.
Così , la componente tattile, sensoriale, sia nelle accezioni verbali usate da lui, sia rapportata alla sua storia personale, sembrava assumere un valore sempre più importante nella lettura delle dinamiche di A., che , probabilmente di quel “contatto” aveva paura a tal punto da nascondersi dietro i suoi trucchi per evitarlo.
Proprio di contatto, A. mi ha parlato in riferimento alla madre, che definiva “emotivamente lontana”, distante, non responsiva ai suoi bisogni personali , non attenta neanche alle questioni pratiche, come la gestione delle medicine e delle visite mediche in relazione ai suoi problemi fisici. Più volte, con il passare del tempo, ha confessato di volere una famiglia diversa, una madre che si occupi di lui e un padre, che non sa proprio cosa significhi avere. Il ragazzo ha detto, infatti, di non sentirsi amato e considerato, di aver vissuto una vita a prendersi cura di sé e di sua madre, crescendo troppo in fretta e senza l’affetto che desiderava. A., infatti, durante un momento di confronto con gli educatori, ha parlato del suo inserimento in comunità come un nuovo inizio, come una possibilità di esser finalmente più “libero” e di scaricarsi di pesi e preoccupazioni che ha sentito addosso per tutta la sua esistenza .

I sintomi fisici , le difese, il disturbo di conversione
Una volta inserito in un contesto nuovo ed una volta prese le distanze fisiche , probabilmente anche emotive, dalla madre, A. ha improvvisamente smesso di mostrare la sintomatologia che aveva caratterizzato la sua vita nei due anni precedenti e, man mano, anche i momenti di tristezza e di pianto sono notevolmente diminuiti.
Analizzando il caso in supervisione, quello che è emerso è stato che probabilmente l’esordio dei sintomi fisici di A., concomitante con una forte crisi economica familiare, che può essere vista come un fattore scatenante ,è stato un modo per il ragazzo di chiedere le attenzioni e le cure materne che non ha ricevuto nel modo che desiderava.
L’organizzazione dei suoi sintomi fisici, infatti, ovvero un forte mal di schiena e i giramenti di testa ,tali da provocare perdita di equilibrio e impossibilità di restare in piedi o anche di camminare , così come la difficoltà di lettura ,il non riuscire a vedere le parole , sembrano far pensare ad una forte regressione del ragazzo alla prima infanzia . Un bambino piccolo , infatti, non è in grado di stare in piedi, di camminare, senza il supporto della madre o del caregiver principale , non sa leggere e , proprio da neonato, non sa distinguere bene le immagini nitide intorno a sé, ma tende a vedere delle forme sfuocate e non facilmente riconoscibili .
Sembra , infatti, che alla base dei sintomi fisici di A. possa esserci un ritorno, attraverso il meccanismo di difesa della “regressione”, ad una fase precedente di sviluppo. La psicologia dinamica intende per regressione “un ritorno a forme precedenti dello sviluppo del pensiero, delle relazioni emotive, affettive, oggettuali, nonché delle modalità comportamentali” (Rovera G.G., 2016) .La regressione, insieme alla rimozione e alla conversione , è una dei meccanismi di difesa caratteristici del Disturbo di Conversione, che sembra più ampiamente rispondere ai quesiti diagnostici sul caso di A.
Secondo il Pdm-2 (Lingiardi, McWilliams,2018), fu Freud per primo a coniare il termine “conversione” ,riferendosi alla “somma di eccitamento” del trauma che si trasforma, converte, in sintomi somatici. Inizialmente si parlava di trauma esterno, ma successivamente divenne “una formazione di compromesso tra una pulsione (spinta, intenzione, desiderio) e una difesa (rimozione); tra il trauma e la difesa” (2018,p.225). Seguendo questo modello , si può dedurre che il “vantaggio primario” dei sintomi fisici di A. poteva essere quello di spostare l’attenzione sul sintomo, piuttosto che portare alla consapevolezza l’impulso , il desiderio o il trauma rimosso. Attraverso la rimozione (Freud,1915), infatti, si allontanano dalla consapevolezza e quindi vengono consegnati all’inconscio un affetto o una rappresentazione quando possono essere percepiti come disturbanti e generare conflitto psichico. Nel Disturbo di Conversione, infatti, secondo il Pdm-2 “il concetto di rimozione si applica al concetto di conversione” (2018, p. 227), sia se si tratta di un trauma rimosso che viene somatizzato, sia come un desiderio rimosso che trova la sua espressione attraverso un sintomo fisico, come risultato di un compromesso.
Se nel Pdm-2 il Disturbo di Conversione viene classificato all’interno dei “Disturbi correlati a eventi di vita e a condizioni stressanti”, nel DSM-5 viene inserito tra i “Disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati”. Nel Disturbo da Conversione , secondo il DSM-5, possono essere presenti uno o più sintomi, motori o sensoriali. I sintomi motori includono paralisi, debolezza, movimenti distonici o tremori, ma anche anomalie nella deambulazione. I sintomi sensoriali, invece, perdita o compromissione della vista oppure alterata sensibilità tattile, olfattiva ,uditiva; possono presentarsi anche vertigini, perdita di coscienza, o vere e proprie crisi, simili alle crisi epilettiche. I sintomi non hanno riscontro organico e non sono spiegati da un altro disturbo mentale e causano alla persona una grave compromissione a livello di funzionamento lavorativo, nell’area sociale o in altre aree importanti.

Conclusioni
Se ci focalizziamo sui sintomi fisici che hanno caratterizzato la storia di A. , comparsi improvvisamente qualche tempo dopo il rientro a casa da sua madre, dopo aver trascorso le scuole elementari in un collegio di suore a convitto e in concomitanza con una forte crisi economica, e poi scomparsi con l’inserimento del ragazzo in un nuovo contesto residenziale , possiamo inquadrarli in una sintomatologia da Disturbo di Conversione . Erano, infatti, presenti sia la componente motoria che sensoriale, ovvero l’impossibilità di deambulazione senza supporti e l’alterazione della vista , così come anche le vertigini e gli svenimenti; non erano evidenti delle cause organiche e non potevano essere inseriti in nessun altro disturbo mentale. La condizione di A., ha inoltre compromesso la sua sfera personale e sociale, avendogli, di fatto, impedito di frequentare la scuola per molti mesi così come le sue amicizie.
Questi sintomi, oltre ad un “vantaggio primario” per A. , di spostamento dell’attenzione verso le problematiche corporee a discapito dei conflitti inconsci, potevano portare anche un “vantaggio secondario” , ovvero le attenzioni e le cure derivate da un ricovero ospedaliero o dalla condizione di malato, ma pare evidente, come visto nella presentazione del suo caso, che la madre non sia stata in grado nemmeno in quel contesto di prendersi cura di lui, chiedendogli di fingere di avere ancora sintomi motori per continuare a restare nell’ambito ospedaliero e non occupandosi di ciò che concerneva i successivi controlli ambulatoriali o la corretta assunzione delle medicine prescritte.
Solo il cambiamento di contesto abitativo, la proposta di relazioni funzionali alternative e la ripresa per lui di un ruolo da ragazzo da “accudire” e non più accudente, come era nel rapporto con la madre , in una sorta di inversione dei ruoli, di cui sentiva tutto il peso sulla schiena (metaforico e poi trasformato in sintomo fisico), hanno presumibilmente permesso una riduzione dei sintomi fino alla loro vera e propria scomparsa .
Il mio non capire questo ragazzo si riferiva probabilmente a tutto ciò che si nascondeva dietro i suoi comportamenti così vicini ma così distanti, che mi tenevano in una sorta di limbo nella nostra relazione, in cui avevo la perenne sensazione di non fare abbastanza e di non aver stabilito un contatto, quando invece, quello di cui aveva bisogno era verosimilmente una presenza costante in un contesto protetto e rassicurante , che gli mostrasse una relazione differente.

BIBLIOGRAFIA

American Psychological Association (2013) , Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM –5). Tr. It. Raffaello Cortina, Milano, 2014.
Gabbard, G.O. (2014), Psichiatria psicodinamica. Tr. It. Raffaello Cortina, Milano, 2015.
Lingiardi V., Gazzillo F. (2014), La personalità e i suoi disturbi. Valutazione clinica e diagnosi al servizio del trattamento. Raffaello Cortina, Milano .
Lingiardi, V., McWilliams N. (2017), Manuale Diagnostico Psicodinamico. Tr. It. Raffaello Cortina, Milano, 2018.
Rovera G.G., (2016), Aspetti analitici della regressione. Rivista di Psicologia Individuale n. 80: 51-61.

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