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Tesi e tesine

Finalmente in due. Di Sara Reggio

Un serio caso di narcisismo patologico e relativo processo di mentalizzazione nel percorso terapeutico.

Quando chiamai Dario per fissare con lui il nostro primo colloquio, presso l’ambulatorio di psicologia del servizio di Salute Mentale, nel gennaio del 2015, a rispondermi non fu lui, ma una voce di donna. Una voce anziana, squillante, di quelle voci che riempiono il telefono, l’intera conversazione, senza lasciare spazio all’interlocutore.

 Scoprii che la voce apparteneva a sua sorella, la quale mi spiegò che aveva lasciato il suo numero di cellulare poiché il fratello non era in grado di gestirsi, né di prendere un appuntamento con me né tantomeno spiegarmi la situazione. Ricordo di aver cercato di far durare quella telefonata il meno possibile, e che non fu facile spiegarle che non potevo prendere con lei l’appuntamento del fratello, anche se sarebbe dovuta essere lei ad accompagnarlo.

Ottenni finalmente il numero di Dario e fissai con lui il giorno e l’ora del primo colloquio. A cui, però, si presentò la sorella, con un certificato medico che attestava l’impossibilità di Dario a presentarsi a causa di una complicazione di un piccolo intervento fatto qualche giorno prima. Questo primo contatto con la sorella di Dario, che all’epoca vissi come una scocciatura, mi fu in realtà molto utile per comprendere alcuni aspetti della personalità del mio paziente, su cui poi avremmo lavorato assieme a lungo.

La donna, una signora sulla settantina (che asserì diverse volte di non essere la madre di Dario nonostante fosse molto comune l’equivoco, data la differenza di età) ribadì che il fratello era incapace di badare a se stesso e che lei provvedeva quasi interamente alle sue necessità, ora più che mai visto che la madre anziana con cui Dario viveva era morta da appena qualche mese. Mi disse che sarebbe stata dura con lui, anche perché il disturbo con cui conviveva durava da ben venti anni. La ringraziai di avermi avvisata del contrattempo del fratello e riuscii un po' faticosamente a congedarla.

⸞ L’entrata in scena ⸟

Alla luce di tutto questo, quando arrivò il giorno del primo incontro con Dario, mi aspettavo il classico paziente psichiatrico grave, con turbe del comportamento, scarsa cura della persona, o nella migliore delle ipotesi un ragazzone maldestro e impacciato, magari con un qualche ritardo mentale.

Queste erano le fantasie che la sorella di Dario mi aveva indotto con i suoi racconti. Ed eccolo arrivare finalmente. Viene dritto verso di me, con una camminata sicura, mi guarda negli occhi stringendomi la mano con decisione. Dimostra meno dei suoi 43 anni, ha i capelli castano scuro, tirati indietro con un po' di gel, e gli occhi piccoli di un azzurro freddo e pungente. È bassino, abbastanza magro da far sembrare la sua figura spigolosa, così come il suo modo di porsi da subito con me. Tutto mi comunica, tranne quel bisogno di accudimento e protezione di cui parlava sua sorella. Ricordo di essermi sentita profondamente inquietata per quell’incongruenza. Ma più di tutto, era lui ad inquietarmi. Parlava con un tono di voce sgradevolmente elevato, era gelido nel racconto e tagliente nelle battute, innegabilmente brillante nell’eloquio ma altrettanto indisponente. Ricordo che non fu un bel primo colloquio. Quasi rimpiansi il Dario delle mie fantasie.

Cominciò a raccontarmi, in maniera precisa e dettagliata, il suo disturbo: un’ansia generalizzata, più che un vero e proprio disturbo di panico, dal momento che i veri attacchi erano stati effettivamente pochi, rispetto alla sensazione costante di inquietudine che lo accompagnava, e che sfociava in attacco in determinate situazioni, alcune “classiche” come i luoghi affollati, altre assolutamente imprevedibili, che nemmeno lui, anche dopo vent’anni di convivenza con la malattia, riusciva a prevedere, e quindi, ad evitare. Quella che mi descrisse era una sensazione di ansia di base, liberamente fluttuante, che riempie di sé ogni attività quotidiana, come una sorta di “nebbia dell’esistenza”, anticipatoria di una minaccia incombente. Sempre presente, mai chiaramente identificabile.

L’ansia, ci insegnano, fa sì che la persona metta in atto le più disparate condotte di evitamento per tenersi alla larga da quegli stimoli che vengono riconosciuti come pericolosi, e l’illusione di controllare in minima parte la malattia è spesso ciò che permette alla persona di andare avanti. Evitare le situazioni patogene consente, sì, di sfuggire all’ansia, quella soverchiante e dirompente, ma non al senso di insicurezza e frustrazione esistenziale e psicologica che accompagna il resto della vita, che sembra prendere la forma di un mero intervallo, una brace mai spenta, tra una fiammata improvvisa e l’altra. Così Dario mi descrisse quella che lui chiama oggi, quasi affettuosamente, la spada di Damocle sulla sua testa.

Dario, all’epoca del nostro primo incontro, aveva molta difficoltà nell’uscire di casa, andare in posta a pagare una bolletta, ma anche uscire la sera con gli amici, se non accompagnato da qualcuno. Quasi tutte le commissioni di ordinaria amministrazione, dal fare la spesa all’andare in banca, erano svolte dalla sorella, come da lei già ampiamente illustrato. In effetti, però, Dario riconosceva già all’epoca che sarebbe riuscito a fare molte di quelle cose, magari con un po' di fatica, ma dal momento che c’era chi se ne faceva carico al suo posto, per pigrizia, non se ne interessava. Cominciò, così, a prendere corpo nella mia mente la fantasia che la sorella di Dario potesse costituire un elemento rinforzante il disturbo, dal momento che sembrava impegnata in uno sforzo continuo di rimandare al fratello un’immagine di se stesso fragile, carente e bisognosa, anziché svolgere una funzione autonomizzante e promuovere le sue risorse[i].

⸞ Vent’anni di panico ⸟

Il primissimo attacco di panico risale a circa vent’anni prima del nostro incontro. Dario sta tornando a Genova, dopo aver trascorso una villeggiatura alquanto sfortunata in una locanda di proprietà di un amico di infanzia, nell’entroterra dello spezzino, presso cui era rimasto bloccato per giorni a causa di una bufera di neve fuori stagione. Tornato in città, Dario riprende la sua auto parcheggiata dalla stazione ferroviaria e imbocca la Sopraelevata[ii] per tornare finalmente a casa. Qui, il maltempo ancora persistente, provoca un incidente poco davanti alla sua auto, e Dario resta imbottigliato. A questo punto, l’inquietudine e la frustrazione cresciute nei giorni precedenti, quand’era prigioniero nella locanda smarrita tra la neve, trovano lo sfogo finale in un tremendo attacco di panico che lo sorprende per la prima volta nell’abitacolo della sua auto, in coda sotto la pioggia battente e un cielo squarciato da fulmini, in questa strada genovese che non permette vie d’uscita in caso di blocco del traffico.

Da allora Dario guida con difficoltà, o meglio, ha messo a punto alcune routine di gestione dell’ansia da spostamento: se può non esce; se deve uscire, cerca di farlo accompagnato da qualcuno che guidi al suo posto; se anche si sente di guidare, non prende mai la Sopraelevata. In alcuni orari o situazioni, inoltre, guida più volentieri che in altri: per esempio, se deve uscire la sera, o in orari presumibilmente non a rischio di ingorghi, riesce con relativa tranquillità, anche se, puntualizza, il viaggio di ritorno verso casa è sempre più sereno rispetto a quello di andata, perché, se non altro, sta per finire tutto. Infine, non riesce assolutamente a mettersi in viaggio se non ha la certezza di trovare un parcheggio sicuro o se sa di doversi recare in posti affollati, ad esempio in centro città a ridosso delle feste di Natale. In pratica, tutto ciò che possa “tenerlo bloccato” contro la sua volontà dove lui non vuole stare, lo terrorizza. Anche la necessità del parcheggio comodo, mi spiega, è funzionale all’avere il suo unico mezzo di fuga il più a portata di mano possibile.

Fortunatamente, mi racconta, è pieno di amici che sono ben lieti di accompagnarlo praticamente dovunque lui voglia. E in effetti, va considerato il fatto che Dario non ha urgenza di andare da nessuna parte, dal momento che non lavora. Anzi…non ha mai lavorato. Ha sempre vissuto in casa mantenuto dalla madre, grandissima lavoratrice, che gli ha lasciato del denaro da parte per il suo sostentamento dopo la sua morte, avvenuto per un cancro poco tempo prima dell’inizio del nostro percorso. Fatto di cui Dario fa menzione nel nostro primo colloquio, ma senza lasciar trasparire alcuna coloritura emotiva nella voce o nel volto. Afferma, anzi, che è stato un altro l’evento più doloroso della sua vita. Sorride beffardo, mentre afferma “Ora faccio fatica perfino ad arrivare dal giornalaio a piedi...e pensare che da piccolo prendevo ogni giorno tre autobus per tornare a casa.”.

A casa…ma non quella dove Dario abitava. Dai suoi amici, al campetto a giocare a pallone, nelle vie alberate di corso Galliera, i palazzi signorili di piazza Martinez e i giardini assolati di Villa Imperiale. Perché Dario, fino a 10 anni abitava qui, in una delle zone più signorili della città. Finché un giorno, uno sfratto esecutivo costringe lui, la madre e la sorella a trasferirsi in una casa popolare in un quartiere disagiato della città. Ricorda vividamente lo shock di essersi ritrovato, nel giro di pochi giorni, dalla sua bella casa a due passi dal centro città, ad un casermone in periferia, nuovo quanto già fatiscente, lontano da tutto, dalla scuola, gli amici, i luoghi e le persone che frequentava, lo stadio dove ogni domenica andava a guardare la sua amata Sampdoria. Così, già a 11 anni, attraversava ogni pomeriggio la città per tornare a quella che lui riteneva la sua vita, da cui era stato così bruscamente strappato. Dario racconta lucidamente il suo traumatico trasferimento, menzionando sentimenti come rabbia, frustrazione, tristezza, senza però trasmettermene neanche una sfumatura, senza che io possa provare alcuna tenerezza per quel bimbo smarrito, strappato alla sua casa e al suo ambiente.

Ricordo che quel primo colloquio, se pur densissimo, fu gelido come l’azzurro dei suoi occhi. Il secondo, al contrario, mi investì di sentimenti, che però non avrei desiderato provare, e che non ho mai provato nemmeno con pazienti che li avrebbero, a buona ragione, giustificati.

Se nel primo colloquio Dario aveva saltellato un po' maldestramente dal darmi del tu al darmi del lei, il secondo comincia con una prima raffica di piombo mal celata dal suo ghigno beffardo: “Io ormai ho deciso che ti do del tu. Se ti va bene, bene, altrimenti peggio per te, te lo tieni”. E dà il via a tutta una serie di comunicazioni e racconti caratterizzati da una palese aggressività nei miei confronti, nei toni (anche se abbastanza ben celata dalla brillantezza del suo eloquio) e nei contenuti: mi racconta il suo gioco di ruolo on line preferito, dove è, neanche a dirlo, vice amministratore di una congrega di signori medioevali, ognuno col suo castello, il suo esercito e le sue risorse agricole, materiali ed umane da gestire, e nello spiegarmi il funzionamento del gioco e delle missioni, chiede di conoscere il mio nome di battesimo e lo usa per formulare tutta una serie di frasi esemplificative dalla sfumatura aggressivo-paranoica: “… chi sarà mai questa Sara che ha mandato dei soldati a spiarmi? Sara ha osato rubare le mie risorse dai granai? Andiamo ad annientare questa Sara che si è approfittata della nostra benevolenza…io sono il più forte della mia congrega, se questa Sara ha osato sfidarmi è perché non sa che io posso annientare chiunque[iii].

Ricordo benissimo l’inquietudine di quella seduta, il mio sguardo che balzava con apprensione alle forbici da medicazione che l’infermiere aveva lasciato in bella vista sull’armadio dei medicinali vicino a noi. Non credo, ora, che volesse davvero spaventarmi; ora ripenso sorridendo al suo arraffazzonato tentativo di apparire più forte, nonché alla mia acerba esperienza come terapeuta. Ma di certo, all’epoca, mi fece sperimentare sentimenti di inquietudine davvero inaspettati. Mi feci coraggio e cercai di restare sul pezzo: “E le succede spesso di essere spiato o attaccato?”. “No mai, non mi hanno mai attaccato. Perché tutti sanno che sono superiore. E io del resto non attacco gli altri, mantengo un equilibrio, amministro ed agevolo i nuovi membri della congrega[iv]. Continua nella descrizione del gioco: “Vedi, in questo periodo c’è uno nuovo che mi sta veramente dando fastidio: provoca e si fa attaccare dalle congreghe vicine, così poi lo dobbiamo andare a salvare…Fa il fenomeno e poi pretende che tutti gli vengano in soccorso quando è in difficoltà…È veramente irritante, meriterebbe una lezione!”. All’improvviso, un timido sprazzo di tenerezza sullo sfondo dell’inquietudine di quella seduta, per il contrasto tra la sua aria da sbruffone pieno di sé e la sua immascherabile fragilità: ebbi in quel momento la prima dimostrazione che Dario, per molto tempo, non avrebbe parlato del suo vero essere direttamente, ma si sarebbe spesso fatto scudo dietro racconti apparentemente poco significativi e sul piano del concreto, per parlare di sé: all’epoca non potevo averne la certezza, ma lo sbruffone attaccabrighe che finiva ad aver bisogno degli altri…era lui.

⸞ Signori e signore… Dario ⸟

Nel corso di quelle prime sedute, Dario diede il via allo spettacolo pirotecnico cui mi toccò di assistere per molti mesi: un trionfo di descrizioni sontuose e racconti improbabili che di volta in volta mettevano in luce le sue eccezionali qualità.

Dario è il vice presidente di un circolo ARCI della sua zona (vice, solo perché non ha voluto implicazioni legali e figurare sulle scartoffie), dove è stimato e rispettato da tutti. È un asso in informatica, tutti gli chiedono consigli e pareri quando hanno problemi con computer o cellulari. È il più forte in tutti i giochi di carte in auge nel suo circolo, vince sempre, e quando non vince scatena un timore quasi reverenziale nei suoi compagni di tavolo. Un giorno, in seguito a un incontro ufficiale con le autorità per l’apertura della nuova sede del circolo, finisce addirittura invitato a casa del presidente della Regione per una serata di poker.

Dario non si spiega perché questo accada, ma è così, in tutte le circostanze. Da sempre, dice, esercita sulle persone un ascendente, un fascino particolare, per cui, senza che lui faccia niente per provocarlo, gli altri lo ossequiano, stimano e riveriscono in un modo che lui stesso non capisce, e talvolta, dice (per ora in modo poco credibile), lo infastidisce persino. Da piccolo, ricorda, le compagne di scuola facevano a gara per potergli portare lo zaino, mentre i maschietti litigavano su chi fosse il suo migliore amico. Al campetto del pallone, poi, era sempre il più conteso: giocava a 8 anni con i ragazzini di 13, e se c’era lui a giocare, l’altra squadra doveva avere uno o due membri in più per avere speranze. Racconta, infine, di essere stato notato da alcuni dirigenti della Sampdoria, che avrebbero pregato la madre di iscriverlo nella squadra dei pulcini, la quale però si sarebbe accanitamente rifiutata a causa di un piccolo soffio al cuore che gli era stato diagnosticato anni prima. E poi (non dimentichiamocene) c’era il sindaco di Lerici, che in spiaggia giocava a carte con lui quand’era piccolo, e ovviamente, perdeva sempre.

Il tono di quei primi incontri fu sempre molto aggressivo, anche perché Dario alternava i racconti delle sue gesta a commenti a situazioni e caratteristiche che lo infastidivano, e si trattava sempre immancabilmente di riferimenti riconducibili alla mia persona. Se il primo sentimento che avevo provato verso di lui nei primissimi colloqui era stato di disagio e timore, presto queste emozioni andarono a trasformarsi in fastidio e irritazione. Non credevo ad una parola di quanto mi diceva. E credo lo sapesse, perché di fronte ad ogni mia domanda, rilanciava sparando sempre più in alto, tanto da farmi temere, in alcuni momenti, un’ideazione a carattere delirante. Più io non gli credevo, più lui cercava di sbalordirmi.

Pian piano, però, cominciai a pormi domande su quale significato avessero i miei dubbi, piuttosto che se fossero legittimi o meno. Ricordo il disagio che provavo non appena Dario spiegava più approfonditamente qualche situazione, rendendola all’improvviso meno impossibile, portandomi a sentirmi in dubbio, se non proprio in colpa, per il fatto di non riuscire proprio a credergli. Mi accorsi che Dario riusciva, con i suoi racconti grandiosi e con il suo continuo tono di sfida, a spostarmi dalla relazione al piano del concreto. Cominciai a domandarmi perché fosse così importante, per me, stabilire se gli credevo o meno.

Mi resi conto che questa problematica mi metteva in difficoltà più dell’aggressività che mi aveva manifestato. Cercai, così, di concentrarmi sui miei sentimenti verso di lui. Sospendere il giudizio…Sempre più domande si affacciavano alla mia mente, che finalmente sembrava destarsi da una paralisi dettata dal fiume dei sentimenti negativi che il paziente mi aveva indotto: Chi sta cercando di sbalordire?” ... E ancora “Di cosa non mi vuole parlare, mentre mi racconta di quanto da sempre venga osannato da tutti?”. Così un giorno gli chiesi: “Come la fa sentire il fatto che gli altri si aspettino sempre che lei sia il più forte, il più esperto, il più competente in ogni ambito?”. “Beh, è bellissimo! Se gli altri ti considerano il top, non può che essere una buona cosa…Però, in effetti, a volte può essere anche un peso…”. Risposi che comprendevo ciò che mi stava dicendo e aggiunsi “Anche questa deve essere una bella spada di Damocle per lei…”.

Non rispose, ma per la prima volta lo sentii in contatto. Non tanto con me (io ero ancora troppo “distante” da lui), e nemmeno, ancora, con le sue emozioni, quelle erano davvero lontane anni luce… ma con i suoi pensieri. Sembrò per la prima volta accettare di rivolgere lui stesso uno sguardo verso di sé, anziché accogliere e godere degli sguardi che gli rivolgeva la gente dall’esterno. Questo cambio di prospettiva sembrò destabilizzarlo per un attimo, come se non gli fosse piaciuto ciò che aveva visto. E ricordo destabilizzò anche me, anche se a me, al contrario, piacque molto quello che vidi in quel momento. Mi sentii un po' fiera di lui

⸞ Cambi inaspettati nel copione ⸟

A quel punto del nostro percorso (erano passati già diversi mesi) Dario non mi aveva ancora detto quasi nulla della sua storia. Sentivo che c’era un motivo. Avevo percepito che domande che avrei tranquillamente posto ad altri pazienti, dopo alcuni colloqui, con lui sarebbero state troppo invadenti. Sentivo che non voleva aprirsi, raccontarmi della sua famiglia, della sua storia. E decisi di aspettare. Senza muovere un passo[vi].

Dario era, in effetti, un brillante interlocutore, spiritoso, mordace, sempre impercettibilmente ingaggiato in una sfida intellettuale con l’altro. Nonostante ciò, la noia era il sentimento che provavo in quota maggiore nei colloqui con lui. Ad ogni modo, sembrava molto tranquillizzato dal fatto che non volessi mettergli fretta. Trascorreva intere sedute a raccontarmi di giochi di carte, dell’ultima partita della Sampdoria, dei suoi giochi di ruolo su internet, della sua gattina Sole, verso la quale raccontava un attaccamento davvero unico. Per un po', lasciai quasi che fosse lui a condurre i colloqui. Mentre io, in attesa che fosse pronto a concedermi qualcosa di più di sé, assistetti alle sue performance e ascoltai i suoi racconti, il più delle volte sul tono di un’improbabile grandezza, talvolta, raramente, un filo più in contatto con il piano del reale.

Restammo parecchio tempo, qualche mese, su questo filo conduttore. Sentii il timore di non stare svolgendo al meglio il mio lavoro, di avergli lasciato troppo potere nel condurre i giochi. Che terapia è se parliamo tutto il tempo di fantacalcio, cinema e giochini su internet? Ma, piano piano, sentivo tra noi una strana sinergia crescere di colloquio in colloquio. Scoprii, pian piano, che… a Dario piaceva parlare con me! Sentivo come se entrambi avessimo saputo che permettergli di gironzolare liberamente nei suoi racconti non costituiva un’abdicazione di ruolo da parte mia. Ci misi un po', ma mi fu chiaro che non stava dirigendo lui la terapia. Ero io che gli lasciavo lo spazio che implicitamente mi chiedeva. Questo mio riconoscermi, questa consapevolezza che non stavo “subendo” il mio paziente, credo abbia cambiato il mio modo di stare con lui, nella relazione. E Dario sembrò, in effetti, accorgersene. E questo, a sua volta, modificò il suo stare insieme a me nella stanza d’analisi.

Passai dal sentirmi disprezzata dal mio paziente, e poi soltanto tollerata al suo cospetto, al sentirmi rispettata da lui. Non mi sentivo più “piccola” e inesperta di fronte al grande Dario. Nei nostri scambi di battute, nel non raccogliere le sue provocazioni, nel non mostrarmi in difficoltà di fronte alla sua dialettica, rispondendo appropriatamente ai suoi commenti, perfino parlando di calcio (dimostrando competenze sportive forse inconsuete per una ragazza), percepivo una crescente stima da parte sua, mentre il mio vissuto prevalente consisteva in un’accresciuta consapevolezza di potergli tenere testa: “Non mi fai più così tanta paura”... e questo, probabilmente è ciò che mi permise di iniziare ad aiutarlo, per davvero.

Già dai primi colloqui, per esempio, Dario aveva avanzato proposte, un po' per gioco un po' forse per provocazione, riguardo al fatto che io potessi accompagnarlo al circolo, oppure a fare la spesa, o ancora in una delle sue serate a biliardo nel locale del suo amico. All’epoca vissi con molto disagio queste richieste che ogni tanto mi buttava lì, nel bel mezzo delle nostre sedute. Temevo che da parte sua potesse esserci un’attrazione verso di me e che, di fatto, mi stesse chiedendo nulla di meno di un appuntamento.

Questo mi mise molto in difficoltà nel lavoro con lui, specialmente perché sentivo che questa cosa stava aumentando la distanza tra noi, già grande, poiché l’imbarazzo e l’inesperienza a gestire la cosa mi portavano la sensazione di voler fuggire da lui. Ci vollero diverse supervisioni prima di riuscire a vivere con meno disagio le sue richieste, alle quali confesso di aver all’inizio tergiversato, senza spiegare con chiarezza le motivazioni dei miei rifiuti. Cosa che riuscii successivamente a fare, e che sembrò tranquillizzarlo. Ebbi la sensazione di aver travisato tutto, e chissà, forse anche questo faceva parte del suo gioco di fascinazione nei miei confronti.

Mi spiegò che se lo avessi accompagnato in uno di quei posti, avrebbe ricavato diversi vantaggi: intanto, il fatto di trovare in me l’ennesima figura di accompagnamento gli garantiva maggiore tranquillità nei suoi spostamenti, ma soprattutto avrebbe avuto a disposizione del tempo in più con me, in cui io avrei potuto osservarlo nella sua vita fuori dalla terapia. Non me ne accorsi subito allora (ero ancora forse un po' intimorita da lui, in fondo) ma credo che a suo modo mi stesse dicendo, per la prima volta, oltre che aveva bisogno di un palcoscenico per esibirsi, che ero importante per lui, in una sorta di “con te mi sento più forte ma ho anche paura che tu non mi creda, quindi voglio farti vedere come sono nel mondo fuori dalla terapia”.[viii]

Il lavoro con Dario proseguì, di seduta in seduta, il suo moto impercettibile. Inaspettatamente, un giorno cominciò a raccontarmi una delle situazioni tipo, in cui il suo disturbo poteva esplodere con più imponenza. Il luogo, le persone, le circostanze, in cui l’attacco, “la spada”, poteva calare improvvisamente su di lui, annientandolo. Descrive la scena, un canovaccio ormai tristemente conosciuto. Al tavolo da gioco, nel suo circolo, con avventori occasionali o con gli amici di una vita, giocano a carte…cirulla, scopone scientifico, non importa. È lì con gli altri, intento a giocare (a vincere) la partita. All’improvviso uno dei giocatori dice una frase, o anche lui stesso. Una frase qualunque, apparentemente. Un commento sulla giocata dell’amico, un’espressione di disappunto mal celata. Un attimo di trasalimento, il respiro si fa pesante…E la spada piomba all’improvviso sulla sua testa. Deve uscire, di corsa, andare fuori in strada, fumare una sigaretta, oppure tornare a casa.

Gli domando come si colloca il suo disturbo nel suo apparire sociale. Dario risponde che tutti conoscono la sua situazione, nessuno batte ciglio se e quando succede. Sembra aver costruito una rete sociale ben oliata di amici fidati a cui chiede di accompagnarlo di volta in volta se ha necessità di spostarsi, e personaggi di contorno che conoscono la sua condizione ma non si azzardano a porre domande. Sembra fiero nel descrivermi questa organizzazione di spettatori non partecipanti e aiutanti scelti e fidelizzati, che comunque, anch’essi, non toccano mai l’argomento. Nessuno si permette una domanda, una chiarificazione, un commento. Tutti sanno, è così e basta, nessuno varca il limite. Rifletto, tra me e me, che nessuno sembra essergli realmente vicino.

Provai a rimandargli che questo alone di inavvicinabilità di cui sembrava avvolto lo manteneva lontano da tutti. Gli chiesi se avrebbe desiderato che qualcuno lo trattasse al di fuori di questo status[ix]. Sembrò per la prima volta molto scosso. Pronunciò un tremolante “sì”, ma volle subito cambiare argomento, rifugiandosi in un più rassicurante commento alle ultime vicende di gioco della sua congrega medioevale.

⸞ Nuove luci sulla scena ⸟

Nei colloqui successivi, Dario cominciò a dimostrare una maggiore disponibilità all’introspezione. Affermò, ad esempio, di essere consapevole che il suo disturbo d’ansia in qualche modo lo teneva al riparo da molte scocciature. Le persone avevano richieste limitate nei suoi confronti, molti fastidi e obblighi venivano delegati ad altri, che di fatto non potevano tirarsi indietro conoscendo la sua situazione. “Che c’era puzza di convenienza un po' l’ho sempre saputo” affermò un giorno. “È che sono passati così tanti anni che non mi ricordo nemmeno come si sta senza questo disturbo”.

Arrivammo a dirci che il disturbo lo aveva, sì, tenuto al riparo da tanti obblighi, doveri e seccature, ma che nel novero delle cose da cui aveva dovuto separarsi c’erano anche tante cose belle. “Per esempio le partite della Samp…sai che io andavo tutte le domeniche allo stadio, da quando ero bambino?” disse, con un velo di tristezza nello sguardo (il primo che ricordo di aver visto nei suoi occhi). Credo fu da qui che cominciò a raccontarmi qualcosa di più della sua vita.

Era piccino, 4 o 5 anni, ma era già un tifoso sfegatato. Abitava a due passi dallo stadio e la domenica aveva appuntamento fisso con la vicina, che lo portava con lei a vedere la partita. Anche dopo il trasferimento in periferia, comunque, il rito domenicale venne rispettato sacralmente, fino a che l’affollamento delle tribune, le urla, gli schiamazzi, gli resero impossibile continuare.

Era tutto più bello, dice, quando si stava in centro. La sua famiglia per esempio…C’erano tanti soldi, niente di eccezionale, ma quando c’era ancora suo padre si stava bene. Suo padre? Ecco comparire un nuovo personaggio nello spettacolo teatrale, di cui l’autore non aveva ancora voluto dirci nulla. Esisteva anche un padre, una volta. Ma non perché sia morto. Dario, per la prima volta, racconta di questa figura un po' inconsistente, vacua, che non ha mai rappresentato un punto di riferimento per lui, anche quando viveva con loro.

Se ne andò quando Dario aveva 8 o 9 anni, facendo molte promesse sul fatto che economicamente avrebbe aiutato la famiglia, anche dopo la sua partenza. Cosa che non avvenne, infatti di lì a pochi anni vennero sfrattati dalla loro bella casa.

Dario afferma di raccontarmi di lui solo così, per dovere di cronaca, ma che non ci sarebbe nulla da dire, in quanto per lui questa figura non rappresenta nulla, né in positivo né in negativo, semplicemente non esiste… “Quindi non cercare di andare a scavare sotto sotto, come fate voi psicodottori, perché sotto sotto non c’è proprio un bel niente

Il vecchio D. (non lo chiama mai “mio padre”) era molto ricco, ma faceva condurre alla famiglia una vita frugale, dimessa, ben oltre il limite dell’avarizia. Dario racconta che quando da bambino desiderava qualcosa, dei soldatini o un pallone nuovo, sapeva bene di non potersi rivolgere al padre, che prometteva sempre ma non manteneva mai, nonostante le sue possibilità. La madre, invece, anche quando era sola e piena di debiti, parlava al figlioletto con sincerità e se i soldi in quel momento non bastavano, quando ci sarebbero state le possibilità, il suo desiderio sarebbe stato esaudito. E così accadeva, sempre. Poteva fidarsi di lei. “Anche perché io lo meritavo” aggiunse “…ero un bambino bravissimo. Mai un capriccio, mai un pianto. Sapevo che potevo fidarmi e che si trattava solo di fare il bravo e aspettare”.

Una capacità di rimandare il piacere e tollerare la frustrazione davvero eccezionale, pensai, per un bimbo così piccolo. Ma poi riflettei sul fatto che potevano essere ricordi influenzati dalla visione ipertrofica di sé del paziente, o ancora segnati dalla compiacenza verso l’unica figura affettiva rimastagli. Inaspettatamente, Dario sembrò leggermi nella mente: “Cos’è, non mi credi? Mia madre non mi ha nemmeno mai sgridato, se è per questo! Sono sempre stato un bambino modello, non c’è mai stato motivo di sgridarmi, se lei mi diceva adesso non si può, sapevo che era vero e che si trattava solo di aspettare… Cosa ci trovi di tanto strano? Mi avrebbe dovuto sgridare per forza, secondo te?!”.

Lessi il suo ennesimo movimento aggressivo come un prendere lievemente contatto con la realtà. Era come se sapesse che quello che mi diceva era difficile da credere fino in fondo. Gli risposi semplicemente che quello che mi aveva appena raccontato mi aveva ricordato la modalità (che mi aveva descritto poco tempo prima) con cui entrava in relazione con le persone. Mi aveva spiegato, infatti, che quando gli altri gli chiedevano qualcosa, un favore, una consulenza, un aiuto in virtù delle sue smisurate competenze, lui si sentiva come in obbligo di rispondere positivamente, per garantirsi un futuro ritorno di aiuti, come in una sorta di tacito scambio di favori: io ti dico sì, così quando avrò bisogno (e so che avrò bisogno, perché sono malato) tu non potrai tirarti indietro. Mi domandai se si aspettasse di venire accolto e aiutato solo se prima lui avesse accolto e aiutato gli altri, e se l’ansia, con le limitazioni che gli imponeva, fosse per lui l’unico modo di sottrarsi a questa specie di ricatto.

Dario era in difficoltà (credo che lo sforzo cognitivo della riflessione sui suoi stessi pensieri fosse una cosa a cui non era abituato) e mantenne il tono aggressivo della seduta dicendo: “Se ti può interessare, ti racconto meglio il mio primo attacco di panico. Ero appena tornato da...”. Lo interruppi bruscamente, come non sono solita fare con i pazienti. Gli dissi in tono fermo e guardandolo negli occhi “Certo che mi interessa”, con l’intenzione di contenere una sua fragilità, ma anche con la fermezza di un pensiero: io non mi faccio dire che non mi importa di te! Il mio tenergli testa sembrò tranquillizzarlo, tanto che proseguì il suo racconto senza più colpi di coda o slanci aggressivi verso di me.

Si era detto che 25 anni fa, Dario era tornato a Genova dopo aver trascorso una vacanza nella locanda di proprietà di un amico di infanzia, nell’entroterra dello spezzino. Si tratta di luoghi a cui il paziente è molto legato, poiché ha trascorso ogni estate della sua infanzia e giovinezza in una casa di proprietà della famiglia sita in queste bellissime campagne. Quella volta, però, si trattò di una villeggiatura sfortunata, in quanto Dario rimase bloccato per giorni, praticamente solo, in questa struttura completamente isolata nella campagna, a causa di una bufera di neve fuori stagione. Il perdurare dell’eccezionale maltempo e l’impraticabilità delle strade per giorni avevano impedito all’amico di raggiungerlo e riportarlo a Genova, e durante la sua permanenza obbligata alla locanda aveva sentito montare un sentimento crescente di inquietudine e angoscia, mista ad una sensazione tremenda di sentirsi bloccato, costretto, paralizzato. L’agognato ritorno a Genova gli riservò l’amara consapevolezza che il suo incubo non era ancora finito: l’attacco di panico in macchina sulla strada verso casa. L’incubo, in realtà, era soltanto appena cominciato, poiché da quel giorno niente fu più come prima.

A questo punto della terapia (erano passati circa cinque mesi), Dario cominciò a mettere in atto una dinamica che ritornò più volte, nel corso di tutto il susseguirsi dei colloqui successivi, fino ad ancora oggi. Ogni seduta in cui sentivo che stavamo lavorando meglio, in cui Dario appariva più disponibile all’auto-osservazione e al contatto con i suoi pensieri, era come se avesse bisogno di alcune sedute di “riposo”, in cui tornare a parlare solo di cinema, calcio e giochi. Da subito, compresi che era una sua necessità/resistenza e, anche qui, gli lasciai lo spazio che implicitamente mi chiedeva, soprattutto perché sentivo che qualcosa in lui si stava muovendo, un millimetro alla volta, ma si stava muovendo.

⸞ Ritorni inattesi e nuovi personaggi sulla scena ⸟

Vidi un grosso cambiamento in lui in particolare in seguito ad un evento che avvenne proprio in quel periodo. Una mattina che aspettavo Dario, si presentò in servizio, al suo posto, sua sorella. Si presentò specificando, di nuovo, che non si trattava della madre, visto che tutti da sempre cadevano nell’equivoco[xii]. Disse che veniva ad avvisarmi che Dario si era svegliato con una brutta emicrania e non sarebbe potuto venire in seduta. Mi chiese poi come stava andando la terapia e se sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto ancora, dal momento che secondo lei con suo fratello c’era ben poco da fare: lo descrisse nuovamente come incapace di badare a se stesso, nemmeno si faceva da mangiare, e la colpa di tutto, secondo lei, era stata della madre, che non lo aveva mai abituato a fare niente e l’aveva sempre tenuto nella bambagia. E concluse l’arringa accusatoria nei confronti del fratello, che non era mai stato costretto a crescere, con un incoerente quanto imbarazzante “Ora vado, che devo fargli la spesa”.

Appena rividi Dario sentii di dover azzardare: gli raccontai tutto, che sua sorella si era presentata in servizio, che aveva chiesto in merito alla sua terapia e che lo aveva descritto in un modo che non corrispondeva a quello che io pensavo di lui, dal momento che lo ritenevo una persona tutt’altro che inetta. Gli chiesi dove stesse la verità, tra le sue descrizioni di grandezza e le svalutazioni della sorella. Aggiunsi che mi ero sentita irritata nel sentirlo descrivere in quel modo, poiché sentivo che non era vero ciò che sua sorella mi aveva detto: dopotutto, aveva accudito in casa da solo per un anno una donna malata terminale, e ora, se pur a modo suo, con orari strani e pasti un po' improvvisati un po’ da servizio a domicilio, stava sperimentando la sua vita da solo, per la prima volta. E aggiunsi, infine, che la terapia era un qualcosa di soltanto nostro, per cui mi sarei aspettata, di lì in avanti, che se avesse avuto necessità di saltare un colloquio mi avvisasse lui direttamente, oppure ci saremmo visti direttamente la settimana successiva. Non ero, insomma, la maestra a cui la mamma porta la giustificazione del bambino a casa con la febbre mentre va a comprargli le medicine. Gli dissi, in pratica, che c’eravamo soltanto io e lui, nella terapia, nessun altro, per cui era sua responsabilità avvisarmi oppure non farlo: avrei preferito, piuttosto, non ricevere notizie se lui non riteneva di volermene fornire, ma che di qualunque cosa si trattasse avrei voluto sentirla provenire da lui.

Mi spinsi parecchio in là rispetto al mio solito stile di conduzione dei colloqui, abbastanza moderato e assolutamente non direttivo. Ma l’avergli quasi imposto di non coinvolgere più sua sorella e la mia indignazione nel sentirlo sminuire da quest’ultima, fu forse ciò che produsse un cambiamento molto importante in lui, fatto di due aspetti apparentemente opposti ma collegati. Da un lato, credo che Dario si sia sentito autenticamente importante per me, ma non in maniera artificiosa e pompata come era abituato, e proprio questo sembrò permettergli di ridimensionarsi: il mio aver controbattuto alle affermazioni della sorella lo rese all’improvviso più capace di guardare a se stesso in modo maggiormente obiettivo. Col passare del tempo, infatti, dimostrava una sempre maggiore capacità introspettiva, di riflessione sui suoi stati mentali e addirittura, molto gradualmente, cominciò ad intravedersi una timida e abbozzata capacità autocritica. Non solo cominciò ad auto osservarsi, ma mostrò la capacità di riconoscere la sua modalità grandiosa di porsi nei confronti del mondo esterno. Si descriveva, alle volte, quasi con tono autoironico, ammettendo che doveva esserci un legame tra come si sentiva considerato grandiosamente dai suoi conoscenti e il modo in cui veniva trattato dai suoi cari più stretti, sua sorella e, fino a poco tempo fa, sua madre: chi avevamo davanti, davvero? Il grande Dario, vincente ed esperto in tutti i campi, o Dado[xiii], che da sempre non è in grado di badare a se stesso? La cosa emozionante è che, senza dircelo, decidemmo insieme che quello era ciò che volevamo scoprire.

 

Un giorno stavamo parlando proprio delle sue modalità carismatiche, e mi parve irrigidito, come spesso accadeva nei primi colloqui, così gli domandai se le mie domande gli dessero fastidio. “No no, assolutamente…” sembrava imbarazzato, ma sincero. Imbarazzato probabilmente perché era forse la prima volta che parlavamo apertamente di una dinamica di rapporto tra noi due: “Mi dà fastidio il contrario: non le domande, ma se io ora, che ne so, ti accennassi una risposta e tu mi dicessi sbrigativamente “ok bene, passiamo oltre” senza ascoltare cosa ho da dire, quello sì che mi darebbe fastidio”. Mancavano, in effetti, pochi minuti alla fine della seduta e sentii che non potevo lasciar cadere nel vuoto quel suo momento di fragilità nel chiedere attenzione, se pur sempre con le sue modalità un po’ sbruffonesche. “No anzi, sono molto interessata a quello che ha da dire” risposi “e mi piacerebbe proseguire il discorso la prossima volta che ci vediamo, in modo da avere più tempo. Sempre che lei sia d’accordo”. “Certo, io rispondo sempre alle domande!” A quel punto, cercai di uscire dalla nostra solita atmosfera un po' fredda, un po' in punta di forchetta, nel tentativo di agganciarlo in un legame un minimo più caloroso: “In questo caso, lo farebbe per senso del dovere o perché ha piacere di farlo?”. Di fronte alla sua espressione confusa, mi ricollegai al fatto che, nella sua vita, il suo essere disponibile, preciso, competente, sempre adeguato e rispondente alle aspettative altrui ha trovato origine nel bisogno di assicurarsi la disponibilità, l’accettazione, la rispondenza delle altre persone. “Ecco, mi piacerebbe che tra noi questo gioco non ci fosse: vorrei che si sentisse libero, ad esempio, di rispondere alle mie domande solo se ha realmente l’intenzione e il piacere di farlo”. L’espressione di Dario, a queste mie ultime parole, apparve tra il frastornato e l’imbarazzato. Non rispose verbalmente, si limitò ad un cenno affermativo con la testa, occhi bassi e silenziosi, mentre lo congedavo accompagnandolo alla porta. Sulla soglia, però, mi fece un sorriso. Che per la prima volta, in effetti, sentii di chiamare sorriso, e non ghigno.

⸞ Giù le luci ⸟

La seduta successiva restò molto colpito del fatto che avessi visto i gol del Barcellona nella partita contro il Manchester City, la sera prima. Seduta di riposo, pensai. In effetti, capivo ne sentisse il bisogno, stava tirando come un treno nell’ultimo periodo. Invece, colpo di scena, di quelli che lasciano lo spettatore a bocca aperta…volle raccontarmi di sua madre.

Mi disse che era sempre stata una donna molto paurosa, e che secondo lui era stata lei a trasmettergli l’ansia. Aveva paura di tutto, quando lui usciva di sera, stava sveglia finché non rientrava, quando usciva in macchina gli chiedeva se aveva gomme, olio e freni a posto perché avrebbe potuto avere un incidente. Raccontò nuovamente che non si era mai arrabbiata con lui, neanche una volta, nemmeno quando era stato bocciato alle superiori per cui aveva dovuto lasciare la scuola. Non solo non si arrabbiò, ma gli pagò anche una costosa scuola privata di Torino dove in un anno poté prendere il diploma recuperando gli anni persi. Mi raccontava di lei, ma io avevo una sensazione strana. Pensai fosse perché in tanti mesi non avevo sentito quasi niente su di lei, ma questa donna proprio non la riuscivo a percepire. Era come se non ci fosse, lì con noi nella stanza, nelle nostre parole, mentre lui me la raccontava. Ricordo di essermi chiesta se non fosse la stessa cosa nella sua mente…

Sua sorella, proseguì, anche lei, l’aveva sempre viziato molto. Forse anche più di sua madre. Dopotutto, l’età era assimilabile, me lo ribadisce anche questa volta, per cui mi chiesi se la sorella non potesse aver ingaggiato un rapporto di rivalità con la madre nell’accudimento del fratellino. Il marito di sua sorella, Gianni, l’unico personaggio di cui conosciamo il nome in tanti mesi di colloqui, è una figura con cui Dario si racconta perennemente in scontro. Da quando era piccolo, l’uomo ha infatti cercato di segnalare alla moglie e alla suocera che Dario stava crescendo in maniera non adeguata, a causa dell’eccessiva protezione che le due donne gli assicuravano, non richiedendogli nemmeno di trovarsi un lavoro, da adulto.

Parlando di lui, Dario finalmente esprime in maniera genuina e autentica un’emozione, anche se di tono negativo. È arrabbiato con lui, da sempre, poiché l’uomo si è sempre dimostrato geloso e rancoroso verso di lui, perché non riusciva a sopportare che gliele facessero sempre passare tutte. Gli chiesi se non poteva essere che quest’uomo, che lo ha conosciuto bambino e lo ha visto crescere, non fosse semplicemente preoccupato per lui, e volesse insegnargli ad essere più autonomo e badare a se stesso. Come avrebbe fatto un papà, pensai tra me e me. Come non ha fatto, di certo, il vero papà di Dario, essendo praticamente fuggito via dalla vita di suo figlio.

Credo che Gianni abbia inconsapevolmente ricoperto un ruolo lasciato tragicamente vuoto dal papà di Dario. In quel periodo della terapia, Dario aveva da poco, per l’ennesima volta, litigato con Gianni per qualche inezia, e mi coinvolse in sedute e sedute piene di racconti livorosi verso il cognato.

Gianni ha sempre osservato con disappunto il fatto che Dario sia sempre stato mantenuto. Ha fatto qualche lavoretto da ragazzo, consegne a domicilio, un lavoro notturno in una tipografia di un amico, ma mai niente di stabile o di socialmente riconosciuto. Fatta eccezione per un lavoro, saltuario, ma che Dario svolse per diversi anni: l’arbitro nei campionati giovanili di calcio. Aveva allenato prima, diversi anni, e poi era passato all’arbitraggio. Anche qui, mi racconta di essere stato un arbitro sui generis. In virtù dello basso livello dei campionati che seguiva, era molto alla mano con giocatori e allenatori, tendeva a dare una sua lettura, meno rigida e meccanica, del regolamento, per cui quando c’era grande disparità di livello tra due squadre, poteva per esempio decidere di non fischiare un fallo alla squadra in svantaggio, per non mortificare ragazzini non proprio esperti a un passo dalla sconfitta. Anche qui, le sue modalità di gestione delle partite, informali se non proprio amichevoli, gli avevano sempre garantito un’ottima fama presso giocatori e dirigenti.

Era comunque anche un arbitro capace, oltre che di larghe vedute, tanto da ottenere una grossa promozione in categoria. Che però Dario rifiuta su due piedi, sostenendo che il passaggio di campionato lo obbligava a spostamenti eccessivi per la sua condizione ansiosa, che iniziava a diventare severa. Credo, però, abbia influito ben più di quel che ammette il fatto che mal tollerava l’ambiente più rigido e formale che avrebbe incontrato, dove non poteva blandire i regolamenti a sua discrezione o trattare affabilmente con giocatori e dirigenti, e quindi esercitare il suo carisma e la sua amabilità sociale. Insomma, avrebbe dovuto rispettare delle regole e sostenere delle responsabilità, cosa a cui non era certo abituato. E come ha fatto forse in molti altri ambiti della sua vita, rinuncia alla possibilità di crescere, per restare nel territorio del familiare, del conosciuto, dove nessuno può renderlo oggetto di richieste a cui non sa se è in grado di far fronte. Dopotutto, non c’era bisogno di avere un lavoro, dal momento che c’era sua madre a mantenerlo.

Sua sorella, dice Dario, non lo ha mai capito e sostenuto nel suo rapporto con la malattia. In tanti anni, lo ha banalizzato, forse deriso, o gli è semplicemente transitata accanto: non gli ha mai fatto sentire un sincero appoggio o comprensione da parte sua (tranne forse quando anche lei, ad un certo punto, sperimenta un attacco di panico). Nonostante questa netta consapevolezza, Dario riferisce di non provare in merito a questo tristezza, dispiacere o rabbia, e subito immagino che possa essere importante per lui cercare un contatto autentico con questi sentimenti che lui stesso identifica come mancanti. Credo che i suoi bisogni di riconoscimento fossero stati da tempo barattati con l’aiuto concreto che la sorella gli fornisce giorno per giorno, da anni.

Comincio, a poco a poco, a farmi un’idea più chiara di come funzioni il mio paziente. È come se Dario sentisse che essere libero di provare ed esprimere sentimenti autentici verso gli altri equivale ad una perdita di vantaggi. Un giorno mi disse: “Se devo chiedere a qualcuno di prestarmi 20 euro, a chi li chiedo secondo te? A Paolo che non lo conosco quasi, oppure a Gino…” che lo conosce meglio? Con cui è amico? Penso io… “a cui li ho prestati io la settimana scorsa?! Ovvio che li chiedo a Gino!”. Ovvio, in effetti, se con Gino c’è una moneta di scambio, non c’è da investire su relazioni o sentimenti. È come se, per lui, fosse sempre in ballo una forma di scambio di favori e funzioni, che va oltre, credo, il banale freddo utilizzo dell'altro per ottenere vantaggi tipico della personalità narcisistica da DSM, ma che ha a che fare con una consapevolezza profonda di non potersi mai appoggiare davvero a qualcuno, a meno di non avergli dato qualcosa in cambio.

Tornano in mente le parole di Dario quando descriveva il suo essere stato sempre un bravo bambino e comincia a farsi strada, nella mia mente, la fantasia che possa aver avuto a che fare con un adulto fragile, inconsistente, addirittura da accudire, che abbia in qualche modo indotto una sua adultizzazione precoce oltre che una esasperazione del suo bisogno di apparire capace e super-performante. Di fatto, considero tra me e me che ancora oggi, anche se Dario mi ha fornito qualche racconto in più su sua madre, resto ancora molto lontana dall’avere nella mia mente un’immagine di lei come suo genitore. Com’era, cosa faceva, come stava accanto al suo bambino, come lo guardava, quanto lo rispecchiava…Come se, ancora oggi, non riuscissi proprio a vederla.

I colloqui proseguono, sempre con una maggiore sintonia tra noi e capacità di Dario di analizzare i suoi pensieri e verbalizzarli. Un giorno, alla mia proposta di associare qualche idea alla sensazione di panico che lo coglie quando è per strada, Dario riporta immediatamente l’allontanamento da casa quando era bambino. E stavolta, me lo racconta in modo da mettere i brividi persino a me.

Dario ricorda l’istantaneità degli eventi: lui che gioca coi suoi soldatini in cameretta, il doverli lasciare così, ben in formazione sul tappeto, e trovarsi con due fagotti nell’androne del palazzo di casa, mentre la mamma parla con gli ufficiali giudiziari e organizza un arraffazzonato trasloco di emergenza da una zia. Non entrò mai più in quella stanza, non vide più il suo piccolo esercito, ed è come se nella sua mente quella stanza, da qualche parte all’altro lato della città, esistesse ancora, proprio come l’ha lasciata quarant’anni fa.

Così oggi, l’essere fuori, per strada, nel mondo, il non sapere dove potrà andare, quanto tempo ci metterà, quando potrà fare ritorno a casa, evocano in lui immediatamente il senso di estraneità che la casa popolare e quella nuova realtà gli faceva provare all’inizio. La sensazione di sentirsi strappare via da un luogo sicuro si collega, per lui, a quel senso di impedimento e costrizione di un qualcosa che ostacola la fuga verso il proprio rifugio, come accadde nei giorni alla locanda in mezzo alla neve e subito dopo l’ingorgo sulla Sopraelevata. Mi spiega, inoltre, che in questo sistema dove il fuori casa è un luogo minaccioso, sconosciuto, l’automobile è per lui l’avamposto del luogo sicuro-casa, dove potersi rifugiare. Non c’è l’aspetto claustrofobico dell’auto, ma esattamente l’opposto: l’auto è un luogo amico in quanto gli permette di raggiungere casa, più velocemente che con altri mezzi.

Piano piano, dopo qualche mese di terapia, Dario comincia ad ampliare la distanza dei suoi spostamenti, e a svolgere qualche attività da solo, come per esempio percorrere qualche chilometro per andare a tagliarsi i capelli. Mi racconta, in relazione a questo, di aver avuto una specie di attacco quando era sulla poltrona sotto le forbici del parrucchiere, colto all’improvviso dal pensiero di aver posteggiato male la macchina e che gliel’avessero potuta portar via.

Dario mi spiega con precisione che il problema non sarebbe stato certo la macchina in sé, o la multa…ma il fatto di rimanere lì, bloccato su quel marciapiede, senza poter fare ritorno a casa. A quel punto, improvvisamente, vengo fulminata da un’immagine, che per la prima volta mi fa sentire davvero in contatto con l’angoscia del mio paziente: quando l’attacco di panico lo coglie, lì, per strada, il pericolo non è lì, dove si trova lui...ma altrove. Come quando si sposta la luce dell’occhio di bue sul palco di una scena teatrale…da Dario a qualcos’altro che, nel frattempo…potrebbe non esserci più!

Forse, capisco solo in quel momento, la paura non era da cercare in lui “su di lui”, ma in lui “verso un altro luogo”. Per usare un’immagine di Dario, l’ansia non è un punto, ma un vettore, una freccia orientata: mentre io sono qui, bloccato fuori, nel mondo, esisterà ancora quel luogo di rifugio e sicurezza, così lontano da me ora, o sarà scomparso, come risucchiato in un buco nero solo per il fatto che io non sono lì, a poter godere del suo calore e del suo conforto? Difficile non pensare, certo, a quella stanza coi soldatini, ma volendo azzardare un passo più lontano, anche ad una mamma forse così fragile e inconsistente da non tollerare mai che il suo bambino si separasse da lei, pena la sua disintegrazione?

Non gli comunicai, all’epoca, le fantasie che mi picchiavano in testa sempre più prepotentemente, ma arrivammo comunque con serenità a parlare del fatto che, probabilmente, c’era stata una connivenza col suo disturbo da parte del suo ambiente familiare, durata per molti anni. Presi ad esempio sua sorella, che da quando la madre era morta aveva cominciato ad andare da Dario ogni sera, preparagli la cena poiché lui non era capace, e andarsene. Gli dissi che, forse, avrebbe potuto mettersi ai fornelli, insieme a lui, aiutarlo ad imparare a cucinare, se ce ne fosse stato bisogno, e perché no, mangiare insieme e ricordare o piangere insieme la mamma morta. Quella sarebbe stata relazione, non vuoto accudimento. Stare con lui, non occuparsi di lui.

Dario dimostrò subito di riconoscere che le due donne della sua vita avevano sempre preferito accudirlo piuttosto che renderlo autonomo. Ricordo, in quella seduta, di avergli raccontato a grandi linee il processo di autonomizzazione che guida il bambino ad allontanarsi dalla madre, pur continuando ad averla nella mente come un punto di riferimento solido e costante per la sua sicurezza interiore. Gli feci l’esempio del bimbo che si sviluppa ampliando le sue competenze attraverso una serie di tentativi, prove ed errori: l’errore è necessario e propedeutico al miglioramento, se c’è qualcuno che lo aiuta a rialzarsi dopo la caduta, senza giudicarlo incapace o aver paura della sua fallibilità, incoraggiandolo a riprovare, anziché sostituirsi a lui per evitargli altri fallimenti. Gli suggerii che nella sua storia, forse, questo cammino di tentativi e progressi poteva essere stato pregiudicato, e che forse c’era dentro di lui una parte (sana) che spingeva verso un’autonomizzazione mai davvero concessa, ma che al tempo stesso faceva paura.

In questo senso, l’ansia poteva essere l’espressione sintomatologica di un conflitto tra la dipendenza, il bisogno di appoggiarsi all’altro, rimanere nel terreno del conosciuto, non sperimentarsi mai, da un lato, e dall’altro, l’autonomia, la separazione dall’altro, il sentirsi adulto, responsabile e capace di andare nel mondo rischiando anche di fallire, ma non per questo crollare. Dario seguiva e partecipava con grande interesse in questo discorso, riportando l’esempio degli attacchi al tavolo del bar, quando qualcuno pronunciava una frase, anche scherzosa, che poteva avere a che fare con un suo comportamento non gradito o una giocata non all’altezza della sua bravura.

Illuminandosi verso la fine, afferma che, come dicevo per il bimbo che cade e si rialza, sente di non potersi permettere di cadere, perché senno chissà gli altri cosa pensano, e aggiunge di riconoscere che, in effetti, per lui è tutto suddiviso tra l’essere il migliore, oppure non provarci neanche.

È in questo periodo che osservo un enorme cambiamento nel mio paziente, di settimana in settimana. L’arrogante e gelido narcisista stava dimostrando, ogni seduta di più, insperate capacità di auto osservazione e riflessione sui suoi contenuti mentali, arrivando a commentare il fatto che probabilmente aveva avuto due mamme, forse in competizione tra loro, che forse per troppo amore avevano finito col danneggiarlo, traendo gratificazione dal fatto di renderlo dipendente.

Un giorno, Dario mi lasciò quasi di stucco buttando lì un’interpretazione molto sottile, a mio parere, ad un suo stesso racconto, in merito ad una delle solite scenette divertenti che avevano come protagonista la sua gattina Sole. Nel raccontarmi di quanto fosse una gattina timorosa e poco intraprendente, tanto che Dario doveva rimanere ore sulla porta ad attendere che lei terminasse i suoi giretti di esplorazione notturna del vicinato, al mio suggerimento scherzoso di chiudere la porta e tornare a dormire, mi rispose quasi con rabbia: “Ma perché devo farle venire paura chiudendo la porta?”. A cui io controbattei un non proprio casuale “E chi l’ha detto che se lei chiude la porta le deve venir paura?”. Mi guardò sorridendo e con tono bonario mi disse: “Sto facendo come mia madre quindi?”. Era solo un’osservazione giocosa buttata un po' lì, ma rimasi colpita dalla prontezza del collegamento. E lui se ne accorse, tanto che proseguì dicendo: “Beh, cosa c’è? Guarda che io ci rifletto sulle cose che ci diciamo”. Ma non lo disse in tono autocelebrativo, per rivendicare le sue capacità: colsi piuttosto il primo sincero apprezzamento per il nostro lavoro insieme.

Dario, in effetti, sembrava mostrare sempre più rispetto per me, in quel periodo. Molto tempo dopo, ammise di avermi studiata per un lungo periodo iniziale, come se avesse avuto bisogno di tempo per decidere se ero una terapeuta abbastanza brava per lui. Proprio in quel periodo, probabilmente, cominciava a pensare che non ero solo una valida interlocutrice in tematiche calcistiche o cinematografiche, ma che ero anche in grado di aiutarlo.

 

⸞ Comparse di ieri, comparse di oggi ⸟

Un altro aspetto che con Dario cominciammo a prendere in considerazione nelle nostre sedute, riguardava il fatto che l’ansia (o meglio, il pensiero di essa) gli impedisse di prendere impegni. Di qualunque genere, lavorativi, sociali, ludici, ma anche sentimentali. Per mesi aveva respinto ogni timidissima domanda che avesse a che fare con la sua vita sentimentale, facendosi scudo dietro a caustiche frasi del tipo: “Io non amo spettegolare, non voglio sapere nulla sugli altri, e mi piace che accada altrettanto con me”.

Avevo avuto un bel da fare a fargli considerare l’idea che il mio desiderio non fosse “spettegolare”, ma conoscerlo, avvicinarmi a lui. E probabilmente, il fatto (anche qui) di insistere delicatamente (quando ormai lo ritenevo possibile) e non allinearmi alla tendenza generale dei suoi conoscenti di rispettare i suoi dettami - ma anche passargli accanto senza interessarsi - lo aiutò a provare stima della mia persona e, conseguentemente, a potersi anche fidare di me. Abbastanza da far finalmente comparire nei suoi racconti una donna: Serena, una ragazza più giovane di lui, che in passato aveva avuto problemi d’ansia analoghi ai suoi.

Da alcuni anni Serena si accompagna a Dario saltuariamente, senza mai coinvolgersi in una vera e propria relazione: si limitano a vedersi una volta ogni tanto a casa di lui, dal momento che uscire insieme o avere una vita di coppia è impossibile. Anche qui, una donna “di facile gestione”: non chiede mai nulla di più di quanto sa che può venirle concesso da Dario, e lei a sua volta conserva la sua vita sociale al di fuori del rapporto con lui, esce coi suoi amici e (anche se Dario non me l’ha mai apertamente ammesso) ha altre relazioni.

E’ Dario stesso ad ammettere che una vera relazione con lui è impossibile: non può garantire a nessuna donna un “vero fidanzato”, che la vada a prendere al lavoro, la porti a cena o al cinema. Per cui, per primo, si tiene alla larga da imprese troppo grandi rispetto alle sue possibilità[xv]. Per quanto possa dispiacergli rinunciare ad aspetti importanti della vita, come ad esempio l’avere una vera relazione con una donna, ammette che è più forte la sensazione di autoaccudimento che tale rinuncia gli procura.

È a questo punto che Dario comincia a mentalizzare la presenza di due forze in lotta dentro di lui, che visualizza attraverso un’immagine: una mano carezzevole che persuade all’arrendersi alle difficoltà, a cui è così facile dare ascolto, ed un pugno chiuso, anche pronto ad arrivarti sulla faccia, se è necessario, ma che spinge verso la crescita e l’indipendenza. Arriviamo a dirci che la sua ansia potrebbe stare dando voce proprio a questo conflitto, e che è la seconda forza quella con cui dobbiamo allearci.

Questa consapevolezza sembra aiutarlo: a poco a poco, la sensazione di ansia generalizzata che lo accompagnava costantemente nelle sue giornate comincia a scemare, rendendolo gradatamente più libero di azzardare spostamenti sempre maggiori. Inoltre, ha preso ad avere un ritmo di vita più regolare, tende a dormire la notte e restare sveglio di giorno, e afferma che ne è contento, anche se un po' spaventato al contempo. Forse immagina di alzarsi alle sette del mattino, allacciarsi la cravatta per poi andare a lavorare? Dal canto mio, lo ammetto, per un attimo ho la tentazione di lasciarmi cullare da tale fantasia, immaginando per la prima volta la possibilità di una remissione del disturbo. Tentazione giustificata anche dalla disponibilità e prontezza dimostrate dal paziente, ogni giorno di più, nel lavoro terapeutico in seduta con me.

Arriviamo a ipotizzare che l’indulgenza esercitata oggi da Dario verso se stesso, che lo spinge a risparmiarsi e a non ingaggiare sfide all’interno di un’esistenza adulta, potrebbe trovare le sue radici nella non richiestività di una madre iper tollerante e protettiva. Torniamo a interrogarci circa un episodio della sua infanzia che Dario mi aveva già raccontato, tempo prima: il primo giorno di asilo. Dario ricorda (ma soprattutto riporta i racconti di sua madre e sua sorella) di aver provato, quel giorno, grande dispiacere e disagio per le prese in giro subite da un altro bimbo, per essersi fatto la pipì addosso. Dario resta talmente colpito dalla scena da non voler più mettere piede all’asilo, luogo con cui non desidera avere più niente a che fare, in quanto luogo dove un bambino può essere umiliato e deriso.

Già all’epoca, sentiva di non essere come gli altri bambini e detestava quando qualcuno veniva fatto oggetto di scherno, anche se (naturalmente) non era mai accaduto a lui direttamente, poiché nessuno si era mai permesso. Raccontandomi l’episodio, sottolineò subito il fatto che la madre non avesse opposto alcuna resistenza a trasformare quel primo giorno di asilo nell’ultimo, e sembrò sinceramente colpito quando gli proposi il fatto che la mamma avrebbe potuto trasmettergli un messaggio differente: anziché confermargli, attraverso il lesto ritiro, che l’asilo fosse davvero un luogo pericoloso da cui doversi proteggere, rimandargli l’idea che affrontare il nuovo ambiente, dove potevano anche esserci bambini pronti a prenderlo in giro, era possibile. Poiché, in definitiva, tollerare il fatto di essere presi in giro, di non essere riconosciuti come perfetti, era possibile.

 

⸞ Corpi, spazi e confini sulla scena   ⸟

In questo periodo di terapia con Dario, ricco di riflessioni e aperture sul suo mondo interno, mi viene raccontata un’ulteriore tipologia situazionale che innesca in lui l’ansia, che a sua volta, se non gestita opportunamente, può sfociare in panico.

Per esempio, laddove gli succeda di non sentirsi bene, magari per un banale mal di testa, tensione allo stomaco, o ancora la pressione un po' bassa, Dario comincia ad avvertire un malessere generale, che pian piano assume sempre più la forma di ansia. Non solo, se qualcuno vedendolo dovesse fare un commento del tipo “Ti vedo un po' pallido oggi, ti senti bene?”, questo è sufficiente a scatenare in lui la paura di avere in corso qualche tipo di malessere che presto o tardi si trasformerà in ansia. E di solito, è proprio quello che accade.

Nella mia mente prende corpo una fantasia: è come se il suo corpo (la sua mente) non avesse un involucro protettivo, una membrana di confine, abbastanza spesso e resistente per proteggerlo da incursioni esterne, come se la barriera non funzionasse dall’esterno verso l’interno, rendendolo vulnerabile agli stimoli del mondo circostante, vissuti sempre come troppo violenti, quasi perforanti. I comuni stimoli fisici vengono subito interpretati come pericolosi, come segno della sua vulnerabilità/fallibilità, come una barriera che anziché proteggerlo si sgretola e lascia passare gli attacchi. Qui, Dario associa subito il vissuto di “invasione psichica” che sperimenta in luoghi e situazioni di affollamento e confusione: “Io sono lì, tranquillo, davanti ad una vetrina del centro commerciale, e ad un certo punto mi accorgo che non riesco a tener fuori – dalla mia testa – la musica dell’impianto nella galleria, il bambino che mi passa a fianco piangendo perché vuole il gelato, o la coppia che litiga a cinque metri da me. Tutto sembra entrarmi nella testa così violentemente da desiderare immediatamente di fuggire”.

Procediamo insieme per immagini e associazioni, passando dal corpo che lo fa sentire vulnerabile ad esplorare il concetto di limite: il non poter essere perfetti, onnipotenti, completamente interi senza nessuna “crepa nel guscio”, nonché la necessità di saperlo accettare. A questo punto, Dario associa la situazione del tavolo del bar, dove qualcuno può lasciarsi scappare una frase e farlo sentire redarguito e rimesso al suo posto, e l’ansia tremenda generata forse proprio dal sentire che qualcuno gli ha posto un limite, concetto con cui Dario stesso ammette di non andare d’accordo, non avendolo probabilmente mai sperimentato. Almeno per ciò che riguarda il suo contesto ambientale educativo e di crescita, dato che, al contrario, lui stesso è il primo a porsi limiti e vincoli rigidissimi, attraverso il suo disturbo d’ansia.

Nonostante il miglioramento cospicuo del lavoro in seduta con Dario, nonché della sua qualità di vita fuori dalla terapia, siamo ancora lontani dallo sperimentare un vero contatto con i vissuti emotivi, limitandoci spesso a ragionare sulle emozioni, anziché viverle. E rimando questa cosa al mio paziente, riferendogli che spesso accade che mi racconti, per esempio, la rabbia, senza però che io lo senta arrabbiato.

Riflettiamo insieme sul fatto che il suo malessere sembra avere a che fare col controllo: Dario sembra essere coinvolto in una dinamica di estremo trattenimento (dei vissuti emotivi) oppure, all’opposto, di esplosione dirompente (l’attacco di ansia), come se fosse difficile mediare tra un estremo e l’altro. Torniamo all’immagine di quella barriera che sembra non essere in grado di trovare la giusta misura: troppo rigida può solo bloccare, ma se sottoposta ad attacchi, si frantuma lasciando dirompere il fiume in piena delle emozioni, che a quel punto terrorizzano, anziché arricchire e impreziosire la vita di ogni giorno.     

Un giorno di fine estate, nel bel mezzo di una seduta come tante, pronuncio quasi senza accorgermene una frase del tipo “Le faccio una domanda importante”. Stavamo parlando in modo tranquillo della sua famiglia, come spesso ormai ci capitava di fare, ma a quelle parole Dario si irrigidisce e mi blocca, asserendo che quel preambolo di domanda lo aveva fatto spaventare. Perché non tollerava di non sapere cosa gli avrei potuto chiedere. Delicatamente, gli chiedo di raccontarmi quello che stava provando in quel preciso momento, le emozioni, le sensazioni corporee e i pensieri che gli stavano attraversando la mente. E Dario, stavolta, l’ansia e la paura me le fa sentire, eccome. Ricordo di aver sentito il mio corpo pervaso da una sensazione di forte disagio, di paura, mentre Dario mi descriveva la sua. Mi spiega che il non sapere cosa lo aspetta, l’ignoto, il doversi destreggiare in un territorio che non gli è familiare, come ad esempio parlare di qualcosa di profondamente suo, di intimo, lo getta nell’ansia, rendendo necessaria la chiusura.

Ci diciamo che è un po' la trasposizione di ciò che è successo, più in grande, nei primi mesi di terapia, dove l’ansia costante lo costringeva a parlarmi di argomenti concreti se non addirittura futili. Stavolta, però, gli rimando che ha avuto il coraggio di restare dentro l’ansia, nel qui e ora, di raccontarmela, di restarci insieme a me, senza fuggire in discorsi rassicuranti su calcio e internet. Siamo rimasti in una posizione intermedia, senza cadere nel panico più completo né mettendoci in fuga in un territorio franco: abbiamo parlato e vissuto “insieme” la sua ansia, ci siamo rimasti vicini. E siamo sopravvissuti: Dario, dopo qualche minuto, comincia a stare meglio. Dopo essersi tranquillizzato, come se volesse un po' smorzare il momento importante appena condiviso, afferma che, sì ce l’aveva fatta, ma che era stato probabilmente merito del fatto che mi aveva in qualche modo tappato la bocca. Gli chiedo se sente di avere esercitato una forma di controllo su di me: Dario specifica di aver piuttosto sentito che non gli avrei fatto male, avendomi chiesto di non fargliene. Ci si può permettere di avere dei limiti, quindi, di essere vulnerabili? Sorride, e risponde che almeno con me, sì, è possibile. [xvii]

A rendere ancora più prezioso questo momento di lavoro insieme, un pensiero condiviso che Dario, da qui in poi, utilizzerà sovente per incoraggiarsi a superare i suoi limiti: perché pensare che ciò che non ancora conosco deve essere per forza un qualcosa che si rivelerà pericoloso, negativo, spaventoso, un qualcosa che non saprò affrontare, che non riuscirò a reggere? Ripetendo questa frase nella sua testa, quasi come un mantra, Dario riuscirà nei mesi successivi a compiere passi importanti, sia nei suoi spostamenti concreti, sia nella capacità di affrontare argomenti sempre più delicati e dolorosi. Ad esempio, la compagna di scuola uccisa da un professore del liceo (caso di cronaca nera degli anni ’80 genovesi), a cui Dario era sinceramente affezionato, o la lite furibonda in ospedale perché gli infermieri dimenticano di effettuare il quotidiano drenaggio polmonare alla madre terminale, facendole rischiare il soffocamento. Da qui, Dario si apre al doloroso ricordo degli ultimi mesi della madre, trascorsi a casa sotto cure palliative, in cui il campanellino con cui Dario giocava da bambino diventa il segnale di allarme con cui la donna richiedeva assistenza negli episodi di crisi. Racconta il funerale, a cui non era presente, occhieggiando dal giardino fuori la chiesa per mano alla nipotina di cinque anni. Gli domando il perché non avesse partecipato: “I funerali…sono cose che non fanno per me” …In questa scena, probabilmente, il protagonista aveva scelto un più rassicurante dietro le quinte, per la paura di non reggere.

⸞ Intervallo e inizio secondo atto ⸟

Durante il mese di agosto, io mi assento inaspettatamente dal servizio per due settimane e salto un’ulteriore seduta per problemi di salute. Giunti ormai a settembre, Dario riferisce di nuovo di provare quella sensazione di ansia generalizzata costante nella giornata, anche se non paragonabile ai livelli di quando ci siamo conosciuti.

Lo rassicuro del fatto che, vista l’interruzione inaspettatamente lunga del nostro lavoro insieme, poteva essere normale; noto, comunque, in Dario un sentito disappunto per questo intoppo momentaneo, quasi una specie di vergogna, come uno scolaro che ha dimenticato come si fa un esercizio dopo una sosta dalla scuola. Gli domando se poteva avercela un po' con me, per il fatto di averlo fatto sentire abbandonato in quel periodo in cui non avevamo preventivato di non vederci per così a lungo, ma non mi sembra pronto per un’ammissione di questo tipo, anche fosse il caso. Di fatti respinge prontamente l’idea. Dal canto mio, cerco di rassicurarlo del fatto che riprendendo la consueta continuità di sedute, avremmo potuto riprendere il nostro lavoro insieme. E così accade. Dopo un minimo di intoppo iniziale, in cui lavoriamo sul fatto di concedersi del tempo per consolidare i miglioramenti fatti (metafora che da ex sportivo Dario accoglie con serenità), riprendiamo a lavorare con il consueto impegno, e presto sparisce di nuovo l’ansia generalizzata. E come un bambino che torna a gattonare dopo un primo accesso alla deambulazione eretta, come per prendere la rincorsa per un balzo evolutivo importante, Dario ricomincia a sperimentare una conquista dopo l’altra.

Verso febbraio, mi racconta di aver ammorbidito i rapporti col cognato Gianni, in occasione di un ricovero in ospedale della sorella. Il motivo che, oltre all’antipatia storica tra i due uomini, aveva portato Dario a non frequentare più la sua famiglia da mesi, tanto da trascorrere il Natale da solo, era stata una lite, anzi, un indignato ritiro dalle scene in seguito ad un’affermazione di Gianni, riportata a Dario dalla sorella. Dopo la morte della madre, Dario su invito dei coniugi, prende l’abitudine di recarsi a cena da loro, ogni sera, inizialmente per la paura che lui non sapesse cavarsela da solo.

Riesco con relativa facilità a fare ammettere a Dario, anche se un po' a denti stretti, che quella situazione familiare ricreata lo faceva stare bene: cenavano insieme, lui portava spesso qualcosa che sua sorella potesse cucinare per tutti, discutevano, guardavano il quiz delle sette e mezza in tv mentre cenavano, e infine si intratteneva col cognato in discorsi da uomini, calcio o informatica, di cui Gianni non sapeva quasi nulla e si affidava a lui per spiegazioni e consigli. Ma ad un certo punto, la sorella riferisce a Dario che il marito ha suggerito di diradare un po' le visite giornaliere, visto che erano passati un po' di mesi dal lutto ed era bene che lui imparasse a badare un po' più a se stesso. Dario a questo punto si infuria, offeso dal fatto che le sue visite fossero state fraintese: non andava da loro perché qualcuno si occupasse di lui ma…perché aveva piacere di stare con loro. Un sincero piacere e un dolce senso di famiglia che Dario aveva perso ormai da molti anni. Mi racconta di aver detto alla madre, parlando davanti alla sua lapide, che sarebbe stata felice di vederli tutti insieme in armonia…ed ora questa armonia gli veniva tolta. Grata del regalo che mi stava facendo rendendomi partecipe di una scena così intima, cerco di mostrargli che, più di ogni altra cosa, più dell’offesa, più dell’indignazione, soprattutto, aveva sofferto. E aveva sofferto per un abbandono[xviii].

Doveva sembrare impossibile, per lui, ammettere, prima a se stesso e poi ad un’altra persona, a me, che ci era stato male. Ma piano piano ci riesce. Riesco dolcemente a mostrargli che non c’è vergogna nell’aver bisogno dell’altro, che ciò che lui ha bisogno di presentare al mondo come una lesa maestà è, in realtà, un qualcosa che lo ha fatto soffrire profondamente. Non solo: che ha tutto il diritto di soffrirne. Dopotutto, Gianni è ciò che di più vicino lui abbia conosciuto ad una figura paterna, sia come età che come ruolo educativo; ed è inoltre, secondo me, la persona che probabilmente ha mostrato per lui maggior rispetto, trattandolo come un adulto, in grado di fare le sue scelte e badare a se stesso.

A denti stretti, Dario ammette di comprendere il mio punto di vista, e in qualche modo, anche di condividerlo, pur tenendoci (sogghigna) a mantenere la cara vecchia antipatia. Nonostante le scherzose dichiarazioni di non cessata belligeranza, nelle settimane successive il rapporto con Gianni comincia pian piano a ristabilirsi, passando da una fredda tolleranza ad un’insperata, se pur sempre timida, vicinanza affettiva.

In questi mesi di primavera, Dario viene, inoltre, messo alla prova da una nomina come padrino in occasione della Cresima di Asia, la figlia del suo più caro amico, che ha visto nascere e per la quale prova un sincero affetto. Passiamo attraverso una mezza dozzina di sedute in cui analizziamo i rischi della cerimonia (stare vicino alla ragazzina durante tutta la funzione nella chiesa gremita), valutiamo la possibilità di una rinuncia (la delusione di Asia costretta a fare a meno dell’amato zio Dario), visualizziamo tutti i possibili scenari della fatidica giornata, gli stati d’animo, le sensazioni, l’angoscia ma anche l’eccitazione, al pensiero di provarci per davvero.

Condividiamo alcune sedute in cui ci avviciniamo moltissimo, sentendo quanto sia difficile per lui aprirsi e confessare le sue fragilità ad un’altra persona. Insieme, decidiamo che avrebbe parlato col prete qualche giorno prima della cerimonia, per metterlo al corrente della situazione, in modo da garantirsi una posizione dalla quale Dario potesse, durante la funzione, uscire a prendere una boccata d’aria in caso di necessità. Questo lo tranquillizza molto, ma soprattutto sembra tranquillizzarlo la frase che mi sfugge, quasi istintivamente, la seduta precedente alla cerimonia: “In cuor mio, penso sinceramente che non avrà problemi”. Mi accorgo subito di non averlo detto per incoraggiarlo. L’avevo detto, semplicemente, perché era quello che sinceramente pensavo. E non perché dovesse andare bene per forza, ma perché ero tranquilla del fatto che eravamo in grado di rialzarci, fosse anche andata male. Aveva parlato col prete, aveva ammesso le sue fragilità, anche con la sua figlioccia, e, credo, si era sentito accettato. Aggiunsi anche, che pur trattandosi di domenica mattina, avrei avuto il telefono con me, nel caso volesse sentirmi, e che telefonata o no, sarei stata vicino a lui. Ricordo, quella mattina, di essere stata incredibilmente tranquilla, di aver pensato a lui ma di non aver dubitato neanche per un attimo che ce l’avrebbe fatta.

Ed è quello che effettivamente accade: Dario riesce a adempiere a tutte le funzioni cerimoniali di padrino, non provando alcun disagio e godendosi la giornata insieme alla sua figlioccia. “Avevi ragione” sorride entrando in studio per la seduta successiva al gran giorno. “Avevamo ragione”, rispondo io, riconoscendo a lui, soprattutto, il merito della vittoria. Vittoria che però, davvero, non avevo mai sentito così “nostra”.

Nei mesi successivi, uno dei cambiamenti che Dario nota in se stesso riguarda il suo vivere più serenamente le situazioni sociali in cui è messo a confronto, per abilità o competenze, con altre persone. Riferisce di essere molto più tranquillo, ad esempio, al tavolo da gioco, poiché lo aiuta il pensiero che non per forza lui ha ragione e gli altri torto. Non aveva mai messo in relazione gli attacchi d’ansia con le critiche che gli venivano mosse, o più precisamente, che lui percepiva gli venissero mosse. Ora sa che il cortocircuito mentale avviene perché “quello che non sbaglia mai”[xix], in effetti, ha appena sbagliato. Ma ora, quello che non sbaglia mai sa di poter sbagliare…non solo, è capace di accettarlo. Di accettarlo per davvero. Tanto che in questo periodo sembra ansioso di ritrovare la stessa accettazione anche da parte degli altri.

Dario sembra cominciare a mostrare insofferenza verso tutte quelle persone che lo celebrano, lo adulano, lo portano in trionfo. Ho la sensazione palpabile che abbia sperimentato (ad un certo punto) la possibilità di presentarsi a me come una persona normale, con i suoi difetti e i suoi pregi, senza ostentare grandezza, e che ne abbia tratto un tale giovamento che ora sembra avere fretta di sperimentare lo stesso da parte di tutti gli altri.[xx]

Dai suoi racconti di vita quotidiana, il circolo, le assemblee, la causa in atto per una nuova sede, compare sulla scena un nuovo Dario, che sembra avere bisogno di relazionarsi con qualcuno che non abbia timore di dirgli no! tu non hai ragione!, anche a costo di entrare in scontro. Ciò di cui una volta sembrava avere timore (un altro-da-sé che non si disperda nella generale celebrazione del personaggio Dario, inattaccabile e sempre vincente) oggi sembra essere per lui ossigeno rivitalizzante. Come avesse la disperata necessità di sentirsi trattato alla pari, come un qualcuno che può essere avvicinato, non il dio invincibile a cui riferirsi solo in termini di confronto celebrativo. Sembra essere alla ricerca di qualcuno che lo riconosca e si avvicini a lui limiti compresi, come probabilmente ho fatto io, prima gratificando e poi frustrando, delicatamente e con estrema gradualità, la sua necessità di esibirsi.

In questo modo, Dario comprende e affronta, a poco a poco, la vuotezza e l’inconsistenza delle relazioni che era solito costruire con le persone, a parte rare eccezioni, imparando a sentire per davvero, forse per la prima volta, che l’altro esiste, con le sue differenze e le sue peculiarità, e che ci si può entrare in contatto, per quello che si è davvero. Ed il cambiamento che Dario sperimenta nella sua vita quotidiana, in termini di diminuzione dell’ansia e accettazione dei suoi limiti, sembra andare di pari passo con un movimento di avvicinamento emotivo nei miei confronti. Non solo smette di essere aggressivo, cinico e arrogante, ma gradualmente assume un atteggiamento sempre più caloroso nei miei confronti. L’aver ricevuto, all’interno della relazione terapeutica, accettazione, rispetto e accoglimento anche senza la sua sovrastruttura grandiosa sembra avergli permesso di sperimentare una sua solidità che ora gli permette anche al di fuori di vivere meglio le critiche e le sue debolezze.

Negli ultimi mesi di terapia, diventa persino premuroso e accuditivo verso di me: interrogandomi sul significato di queste attenzioni, decido di accoglierle, in un modo differente da quanto avrei probabilmente fatto con un altro paziente, per tutta una serie di ragioni. Innanzi tutto, ritengo che per la prima volta Dario stia sperimentando una relazione in cui non si trova nella posizione di oggetto dell’accudimento in qualità di essere immaturo e inetto (come avveniva all’interno della sua famiglia), né in una posizione di superiorità posticcia da cui elargire indicazioni e consigli senza possibilità di confronto (come avveniva nella maggior parte delle sue relazioni sociali), ma piuttosto in una relazione in cui sperimentare di sentirsi capace di prendersi cura dell’altro, altro con cui è possibile sentirsi davvero in contatto.

Inoltre (e di questo avrò riscontro nell’ultimissima fase della terapia, da un confronto aperto col paziente) ho da subito la sensazione che certi gesti servissero a veicolare un messaggio per cui non esistevano ancora parole: la terapia, dopo tanti anni di sofferenze, stava davvero dandogli la possibilità di stare meglio, e di questo mi era profondamente grato, anche se non era ancora pronto per poterlo comunicare verbalmente. Infine, ricordo di essere rimasta stupita di aver riscontrato, nei suoi gesti e nelle sue premure, una coincidenza temporale sorprendente con un periodo della mia vita in cui, per vari problemi, mi sentivo molto angosciata e senza forze. Era come se Dario fosse riuscito a percepirlo, dando prova di una capacità empatica che non mi aspettavo da lui, e che, più probabilmente, doveva segnalarmi qualcosa di specifico a livello transferale, che riuscii a chiarire solo più avanti.

Tra i diversi gesti di premura che Dario mi regala in questo periodo, vi è il dono di un cd in cui aveva masterizzato un film, di cui avevamo parlato di recente. Come già detto tante volte, parliamo spesso di cinema, ancora oggi, ma quel film sembrava averlo colpito in un modo diverso dagli altri, tanto che appunto è l’unico che mi porta, in due anni di terapia e tanti film discussi, come se ci fosse, da parte sua, un’aperta richiesta che io lo guardassi. Il film in questione non era certo un film di spessore, come lui stesso ammette, eppure continuava a parlarmene. Per cui, appena ebbi il cd in mano, lo guardai, con una chiara aspettativa di trovare qualcosa, nella trama, in un personaggio, che mi raccontasse qualcosa del mio paziente. Eppure, mentre lo guardavo, continuavo a non cogliere nulla. Un film che aveva l’intenzione di essere un horror, con un tutt’altro che spaventoso piccolo protagonista che aveva il dono di materializzare i propri sogni, mentre dormiva. I sogni belli, ma anche gli incubi: questi, popolati da un essere malvagio, dal cranio glabro e gli occhi vuoti, che il bimbo (orfano, in affido presso l’ennesima famiglia) chiama Uomo Cancro. Ebbi una scossa, alla fine del film, quando nella scena conclusiva, il terribile Uomo Cancro, avvolto nell’abbraccio della mamma adottiva, si trasforma nel bimbo, mentre viene narrata la storia della malattia della sua mamma biologica, un terribile cancro al pancreas che la strappa al figlio di appena tre anni. Molto forte la scena del racconto dell’ultimo saluto tra i due: il bimbo terrorizzato e la sua mamma, irriconoscibile, senza capelli, con la pelle gialla e gli occhi gonfi, immagine che resta sepolta nei suoi ricordi e che torna, trasfigurata nel terribile mostro che divora tutte le persone che cercano di avvicinarsi al piccolo, negli anni.

Tornata in seduta da Dario, parlammo di come il bambino avesse dimenticato completamente la sua storia, lasciandone traccia soltanto attraverso la trasfigurazione dei suoi sentimenti di dolore e rabbia nei confronti della perdita della mamma, nel terribile mostro che annienta tutti quelli che si avvicinano al bimbo per dargli amore. È a questo punto che Dario mi chiede se stessi cercando di farlo riflettere sui suoi sentimenti per la morte di sua madre. Dal canto mio, gli faccio notare che era stato lui a parlarmi di quel film, chiedendomi poi, anche se non esplicitamente, di guardarlo: avevo sentito che era stato lui, se mai, a chiedermi di farlo riflettere su certi contenuti. In punta di piedi, nel rispetto dei suoi tempi, ci stavamo avvicinando sempre più a toccare uno degli angoli più nascosti, protetti e dolorosi del mondo interno del paziente.

⸞ Giù la maschera: considerazioni sulla struttura interna del protagonista ⸟

Negli ultimi mesi della terapia con Dario (siamo ormai giunti alla fine del 2016), riflettiamo insieme su come si era presentato all’inizio, in particolare sul fatto che molte delle cose che aveva riferito di sé sembravano assolutamente inventate, tanto era la coloritura autocelebrativa che connotava i suoi racconti. Le stesse situazioni, adesso, vengono raccontate in termini nettamente più realistici: i ragazzini più grandi del campetto, ad esempio, lo avevano accolto a giocare con loro solo perché quel giorno mancava un giocatore, e Dario pur essendo piccino riusciva a reggere la partita… da lì prese l’abitudine a frequentare quel gruppetto di ragazzi. Oppure i ricordi della scuola, dove Dario venne bocciato ma non più per qualche cospirazione di docenti che non comprendevano il suo genio, ma perché (ora può ammetterlo) aveva scelto un indirizzo sbagliato e non studiava volentieri quelle materie.

Oltre a questi episodi, molti altri, già raccontati all’inizio della terapia in termini grandiosi, vengono rielaborati e corretti, talvolta addirittura quasi in termini svalutativi. Ciò che Dario sembra fare, in questi momenti, è un’operazione auto svalutativa che di nuovo, credo, ci allontana della realtà, anche se in senso contrario rispetto a quanto da lui fatto finora: si tratta probabilmente del baratro depressivo su cui si affaccia il paziente narcisista quanto si accede al di là della crosta difensiva di grandiosità e onnipotenza, quando si mette in luce il senso interiore di inadeguatezza, vergogna e inferiorità che gli atteggiamenti grandiosi servono a coprire.

Andando avanti nella terapia, contrariamente alle sensazioni iniziali, mi sono fatta sempre più l’idea che in un certo senso, anche attraverso l’autocelebrazione, Dario abbia comunque sempre detto la verità…anche quando sembrava “troppo”. Anche quando diceva che la mamma non lo sgridava mai. Anche quando raccontava di essersi rotto il braccio a nove anni e aver continuato a giocare andando in ospedale solo dopo tre giorni. Credo che lui abbia dovuto davvero essere sempre “bravo”. Bravo in tutto. Competente, abile, efficace, performante, soprattutto senza bisogni o capricci di bambino. E, probabilmente sì, che abbia dovuto raccontarsi al mondo ancora più in grande.

Forse, cominciavo a pensare, tutto questo serviva a giustificare un’assenza…un adulto, che avrebbe dovuto esserci per lui, ma che in effetti, nei suoi racconti, non sembra comparire mai. Tanto che la mente, ascoltando i racconti di Dario in cui appare di sfuggita una figura di accudimento, suggerisce di evocare la figura di Paola, la sorella del paziente, così spesso (forse non solo per motivi anagrafici) scambiata per sua madre.

In effetti, credo che i racconti in cui non è mai stato preso in giro, in cui i bimbi lo cercavano, in cui le persone lo hanno sempre considerato e trattato da figura autorevole e competente, rispecchino una verità: non è difficile, infatti, immaginare che Dario abbia vissuto nell’incessante sforzo, lungo tutto una vita, di proiettare negli altri il suo bisogno di essere ammirato, celebrato, vezzeggiato, inducendo effettivamente tali comportamenti attraverso un affinamento minuzioso delle sue qualità fascinatorie, in modo da assicurarsi un inesauribile plauso dalle folle.  

Come dicevo, però, il carisma e il fascino che contraddistinguono Dario ancora oggi non sono prodotti del tutto artificiali da gettare via. Questo è un tema che ho cercato di affrontare con attenzione e scrupolo con Dario, laddove ho percepito il suo bisogno di buttarsi giù, sentendosi all’improvviso un prodotto interamente fasullo. Oggi, stiamo cercando di capire insieme da dove questa sua necessità grandiosa sia scaturita. Perché abbia avuto bisogno di costruire una sovrastruttura dove il fallimento, il bisogno e il limite non sono contemplati. E le mie fantasie corrono sempre più a questa mamma. Che io, ancora, dopo due anni e mezzo di terapia, nella mia mente ancora proprio non riesco a vedere…come se mi sfuggisse. Forse, semplicemente, perché, dal punto di vista emotivo, non credo ci sia mai stata, per davvero.

Perché un bimbo dovrebbe avere bisogno di farsi male praticamente ogni giorno, senza mai provare ristoro nell’accudimento di una mamma presente da cui poter correre piangendo? Dario bambino e adolescente ha un numero impressionante di incidenti e infortuni, di cui la madre non ha mai saputo nulla. Aveva timore di spaventarla? Di darle un peso o una preoccupazione che non poteva reggere? Oppure pensiamo all’episodio della serata del cinema all’aperto, dove Dario (da solo) a nove anni fa indigestione di ghiaccioli (ne mangia quasi una ventina!) e finisce in ospedale. Dov’è la mamma di quel bimbo? Che non ha nessuno a spiegargli che venti ghiaccioli non si possono mangiare!, perché ti farà tanto male la pancia. Dov’è la mamma di quel bimbo che a undici anni prende tre autobus e attraversa la città, perché lasciato solo a elaborare il lutto di aver perso tutto il suo mondo, in un istante lungo quanto una battaglia di soldatini? Così, in mezzo a sparuti accenni ad una mamma iperprotettiva e asfissiante, Dario sembra raccontarmi, in realtà, di un bimbo lasciato solo.

 

Parlando della sua vita oggi, riflette che se sta sveglio fino a tardi è perché sa che può permettersi di dormire di giorno. Sua madre si coricava presto per svegliarsi la mattina alle cinque per andare a lavorare e mantenere entrambi. I grandi fanno così, mi dice. A lui non è mai stato chiesto di trovarsi un lavoro per contribuire alle spese, nemmeno quando era già adulto. E non credo si sia trattato di un riguardo nei confronti del suo disturbo d’ansia, che da come racconta Dario, è sempre stato banalizzato o ignorato[1]. È come se nessuno gli avesse mai richiesto di prepararsi alla vita, quella vera: un bimbo lasciato solo davanti a una vetrina di dolci che, libero di mangiarseli tutti, poi sta male. Sembra non esserci mai stato un adulto disposto a dare delle indicazioni, a dire dei no…forse, semplicemente, disposto ad esserci. La mamma di Dario viene sempre descritta come impaurita, preoccupata, ansiosa, ma non sembra mai essergli davvero vicino. Nei suoi racconti, o non c’è o viene raccontata come una presenza ingombrante e intrusiva: non sembra mai esserci una sana via di mezzo, ma sempre una dialettica tra un troppo vicino e un troppo lontano, in cui Dario sembra essere alla ricerca di un suo spazio vitale.

D’altro canto, in letteratura, i disturbi d’ansia sono stati spesso associati ad angosce primitive di penetrazione, intrusione e divoramento da parte dell’altro: in questo senso, lo spazio esterno e la folla (ripensiamo a quando Dario descrive il vissuto di non tenere fuori dalla sua testa le voci e la confusione del centro commerciale) possono simboleggiare quella che è una caduta dei confini interni, un senso di invasione psichica. Come una barriera che non si è mai consolidata abbastanza per svolgere la sua funzione di confine. Allo stesso tempo, si può osservare una forte correlazione tra disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo di Panico, con l’ansia da separazione. La dialettica tra madre e figlio (il troppo vicino o troppo lontano) provoca una situazione di ansietà ambivalente (nel senso della teoria dell’attaccamento), ma anche una paura di abbandono, simmetrica a quella di essere invaso (Chiappero, 2003).

Possiamo collegare a questi concetti fondamentali anche la mancanza del limite, il no che viene gradualmente interiorizzato come un elemento tollerabile e su cui si fonda la capacità di gestire la frustrazione nonché lo sperimentarsi come esseri fallibili, e nonostante questo, amabili. In questo senso, è lecito presumere che l’assenza della figura paterna (dal punto di vista emotivo, prima, e poi anche fisico, successivamente) abbia reso impossibile il corretto evolversi di dinamiche intrapsichiche fondamentali: nello scenario del triangolo edipico, descritto da Freud e successivamente da altri psicoanalisti, il padre ha l’importante compito di impedire la realizzazione dell’investimento oggettuale del bambino verso la madre (Freud, 1924). Dal divieto del padre, che determina la rinuncia all’oggetto incestuoso (madre), deriverebbe la strutturazione del Super-io, istanza psichica fondata sui concetti di censura e di senso di colpa, che esercita, nei confronti dell’Io, un ruolo di critica, auto-osservazione e controllo (Freud, 1922).

Compito evolutivo del figlio maschio è, dunque, rinunciare alla madre e impossessarsi, tramite identificazione, del padre temuto, il quale gli offre la promessa di una genuina potenza futura, fornendogli una valida iniziazione alla virilità e aiutandolo a superare la paura di sentirsi fuso con la madre (Bateman e Holmes, 1995). In questo senso, non essendoci mai stato per Dario un vero e proprio accesso all’Edipo, è probabile che la dimensione di fusionalità con la figura materna non solo non sia mai stata superata, ma abbia subito una cristallizzazione, coadiuvata da un disturbo d’ansia che ha di fatto reso Dario inetto e incapace di costruirsi una sua dimensione di vita separata, il tutto in un quadro di paura dell’autonomia rispetto alla fusionalità pre-edipica e paura degli altri come “invasori” che possono penetrare in questa diade. In questo quadro, il “terzo” rappresentato dal cognato Gianni viene infatti rifiutato sia come padre-edipico, sia come rappresentante delle regole e della realtà con le sue esigenze (pensiamo ad esempio alla dimensione lavorativa del paziente, sempre ripiegato su se stesso e mai disponibile al ricoprire un ruolo socialmente e istituzionalmente riconosciuto, sancito da regole e mandati precisi). Senza nessuno a svolgere la funzione paterna di terzo, che, ricordiamo, ha la funzione di interdire l’incesto e rompere la diade simbiotica madre-bambino (Freud, 1924), resta il doloroso conflitto tra la naturale spinta all’autonomia, alla maturità, al diventare adulti e trovare una propria dimensione, e dall’altro lato la fusione, il non crescere, poiché il prezzo della separazione può essere la perdita dell’oggetto amato.

 

⸞ Un elemento traumatico nella storia del protagonista ⸟

Verso febbraio del 2017, Dario introduce un nuovo elemento al racconto della sua storia infantile, che mi permetterà di aggiungere un altro tassello alla ricostruzione della sua vicenda personale. Mi spiega che quando aveva solo circa sedici-diciotto mesi, una malattia a cui i medici per un po' non seppero dare spiegazione, lo costrinse ad un ricovero di circa un mese e mezzo, in regime di quasi totale isolamento. La sorella gli aveva raccontato che i parenti, a quell’epoca in generale, e nel suo caso in particolare, vista la misteriosità della sindrome, non venivano messi in contatto con i piccoli pazienti, che potevano essere solo osservati attraverso un vetro. Dario ovviamente non ricorda, mentre Paola ha bene in mente, racconta il fratello, le visite strazianti in cui il bimbo piangeva disperato battendo le manine nel vetro.

A questo episodio, Dario collega l’attaccamento morboso che sviluppò, successivamente, nei confronti della mamma: non voleva mai che si allontanasse, per cui la seguiva ovunque, a fare la spesa, perfino al lavoro, se era possibile. Ricorda perfettamente che quando era in cameretta a giocare, da solo, ogni tanto la chiamava, ma non perché volesse chiederle qualcosa, nemmeno che lo raggiungesse…voleva solo sentire la sua voce, sapere che c’era.

Il disturbo d’ansia da separazione (di cui Dario sembra aver sofferto, a giudicare dai suoi racconti) è una condizione in cui il bambino vive un’eccessiva ansia in corrispondenza della separazione da figure di attaccamento o da luoghi ritenuti sicuri. Se la condizione descritta dai concetti fondamentali di fiducia di base, costanza dell’oggetto e base sicura non viene sufficientemente interiorizzata, il bambino vive ogni breve assenza come una perdita, ogni piccola separazione come un tragico abbandono, e non sarà in grado di regolare le sue riposte affettive ed emotive. In conseguenza a ciò, sviluppa una serie di inibizioni comportamentali e una notevole riduzione del naturale slancio all’esplorazione del mondo esterno (poiché non vi è fiducia nella possibilità di ritrovare la mia base – che non percepisco come sicura – se mi allontano da essa).

Ripensando alla storia clinica del paziente, notiamo come la condizione di ansia da separazione sperimentata in epoca infantile sembri essere stata predittiva nei confronti del disturbo d’ansia che lo ha accompagnato durante tutta l’età adulta, relazione che, si diceva, è stata postulata da molti autori in letteratura (D.F. Klein, 1993; Gabbard, 1994; ma prima ancora Bowlby, nei suoi studi sull’attaccamento insicuro, 1975). Questa condizione viene spesso rinforzata da un comportamento genitoriale che, inconsciamente, tende a scoraggiare l’esploratività del bambino. Nel caso di Dario, possiamo notare un’ambivalenza di fondo nei comportamenti tenuti da sua madre (in alcuni racconti sembra totalmente abbandonato a se stesso mentre in altri riferisce di sentirsi soffocato e schiacciato dalla presenza di quest’ultima, anche in termini di senso di colpa), ma anche dalla sorella, che ancora oggi mostra, nei confronti di Dario, talvolta intrusività e protettività morbose, mentre in altri momenti (quelli in cui Dario avrebbe avuto davvero bisogno di lei) totale abbandono.

Alla luce di questi concetti fondamentali, possiamo ipotizzare un passaggio ulteriore nella lettura del disturbo del paziente. Dario spesso racconta di come le sue uscite tengano conto della distanza da percorrere, con uno specifico schema di regole e spostamenti. Muoversi in automobile alle undici del mattino o di sera non è (più) percepito come problematico, mentre nel traffico delle cinque del pomeriggio Dario rinuncia(va) a praticamente qualsiasi spostamento; allontanarsi a piedi da casa di un chilometro, inoltre, è per lui più disturbante che prendere l’auto, fare venti chilometri, ma muoversi a piedi a breve distanza da dove ha posteggiato. È come se temesse un impedimento (reale o peggio ancora potenziale e imprevisto) che lo possa tenere forzatamente lontano da casa (o il suo rappresentante, l’auto). Quando spiega minuziosamente che la paura che prova non è “lì” dove si trova lui, per qualcosa che potrebbe accadergli, ma è da ricondurre, come ripercorrendo all’indietro i suoi passi, alla casa che lascia dietro di sè (e che teme di non ritrovare), non può non tornare in mente, certo, la casa che gli viene tragicamente strappata nel giro di un istante quando è bambino (evento a cui lui già nella prima seduta attribuisce un ruolo fondamentale nel suo quadro clinico), ma ancora più a monte, probabilmente, la mancanza di una figura di attaccamento capace di fornire una base sicura di sostegno emotivo, contenimento delle ansie, incoraggiamento all’esplorazione del mondo. A questo, ricordiamo, si aggiunge la separazione coatta dalla mamma quando era ricoverato a diciotto mesi (età critica per quanto concerne l’accesso ai processi di individuazione e permanenza dell’oggetto), periodo durante il quale è stato totalmente privato delle cure, dell’affetto, della voce e dalle carezze della sua mamma per più di un mese[xxi].

Per tutti questi motivi, il processo terapeutico che ho tentato di instaurare durante i due anni di percorso con Dario, riguardava il favorire l’interiorizzazione di un oggetto buono costante e promuovere il processo di separazione-individuazione. La sensazione che ho avuto durante l’ultimo anno, durante il quale migliorano cospicuamente le sue condizioni, anche come spostamenti, è che lui abbia imparato a “portarmi con sè”: ad esempio, è dopo che percorriamo insieme “virtualmente”, in una seduta, un certo percorso (per il quale mi aveva chiesto di accompagnarlo fisicamente) che trova il coraggio di compierlo da solo, iniziando da lì a muoversi sempre più autonomamente[xxii]; oppure, le numerose “frasette” che ho detto durante le sedute, che lo hanno colpito e che lui si ripete al di fuori della terapia nei momenti in cui l’ansia lo colpiva più facilmente (ad esempio, quando percepiva disappunto negli altri giocatori al suo tavolo, trovava serenità nel pensare “Sì, e se anche avessi sbagliato la giocata? Cosa mai potrebbe succedere?”).

 

⸞ Ultimo atto: ultimi mesi di terapia e considerazioni finali ⸟

Se la figura della mamma di Dario rimane avvolta da un alone di insondabilità ed evanescenza, quella del padre è assolutamente chiara e potente nella sua assenza. Dario riesce a parlarmi di lui in toni meno rabbiosi e cinici solo dopo due anni di terapia: la sensazione che ho avuto è che abbia avuto bisogno di un’ “incubatrice psichica” che gli permettesse di accedere gradatamente a vissuti e ricordi legati alla figura paterna.

Il vecchio D. viene descritto come un personaggio schivo, rigido, avaro in modo quasi patologico, di denaro ma soprattutto di affetto nei confronti del figlio. Una persona su cui non si poteva fare affidamento, al contrario della mamma, ripete ostinatamente Dario, che presto o tardi, compatibilmente alle sue possibilità, faceva avere al figlioletto tutto ciò che desiderava. Molte volte ho tentato di avvicinare col paziente il tema del rapporto con il padre, ottenendo soltanto dei commenti fugaci e sprezzanti, che chiudevano di volta in volta il discorso in modo difensivo. È probabile che l’abbandono del padre sia un altro evento cruciale nella storia clinica del paziente, che ha pesato nella sua dimensione psichica molto più di quanto egli sia disposto ad ammettere. Solo una volta (e proprio in corrispondenza del periodo di riavvicinamento al cognato), Dario mi offre un ricordo del suo rapporto con il padre che non sia segnato dalla rabbia o dal disprezzo, ma la dolcezza dell’immagine di papà e figlio piccino che guardano insieme la partita rimarrà circoscritta a quell’unica seduta, e l’argomento continuerà ad essere abilmente evitato.[xxiv]

Tutt’oggi, Dario non sa se il padre sia ancora vivo. Sa di lui che si è risposato e che ha un’altra famiglia. Sa di avere due fratelli che non sanno della sua esistenza, poiché il padre ha sempre avuto cura di mantenere separate le due dimensioni familiari. Nonostante l’apparente freddezza della narrazione, ricordo di aver provato commozione e profondo rammarico nei confronti del paziente quando, pochi mesi fa, mi racconta di se stesso che, ventenne, ogni tanto incontrava di nascosto il padre nel magazzino di quest’ultimo: un giorno, sorpresi dall’arrivo inaspettato della moglie del padre, viene addirittura spacciato per un fattorino che stava effettuando una consegna, pur di mantenere il segreto. Inutile domandare a Dario i sentimenti che accompagnano questo ricordo: è ancora troppo distante dal potersi concedere di soffrire genuinamente per il mancato riconoscimento (questa volta il termine sembra davvero azzeccato) da parte di suo padre. Ad oggi, non lo vede da sette anni, né lo sente telefonicamente da quando il vecchio D. si è ammalato e gli ha chiesto di non cercarlo, ma di lasciarlo morire in pace e di presentarsi dopo la sua morte per richiedere ciò che gli spettasse. Attualmente, è tutto ciò che Dario ha intenzione di fare.

È stata fatta menzione del mutato atteggiamento di Dario, nell’ultimo periodo della terapia, in termini di empatia, preoccupazione ed accudimento nei confronti della terapeuta. Più volte negli ultimi mesi, infatti, mostra interesse nei confronti del mio stato d’animo, riferendo preoccupazione per avermi vista stanca, abbattuta o triste in alcune sedute, oppure notando tempestivamente segni di bruciature sulle mani o l’incedere claudicante dopo un infortunio, mostrando apprensione ed interesse. Un pomeriggio di febbraio, deduce da una frase detta in corridoio ad un collega, che il giorno in cui abbiamo il nostro appuntamento settimanale arrivo in struttura direttamente dal turno di lavoro, senza aver pranzato. A partire da questa deduzione (peraltro esatta), Dario prende la curiosa abitudine di portarmi (e lo farà ad ogni appuntamento) un succo di frutta Ace in bottiglietta di vetro, di quelli che si vendono al bar. Mi spiega che quando abbiamo la nostra seduta settimanale, lui arriva dal circolo dove prende il caffè, e visto che non gli è di alcun disturbo, gli fa piacere portarmi qualcosa di dolce per tirarmi un po' su a livello di zuccheri, dato che “poverina, non riesci nemmeno a pranzare per venire qui” (queste sono le esatte parole che usa).

Decido di aspettare e vedere come si evolve la situazione, lasciando come a “sedimentare” il mio vissuto iniziale di disagio e imbarazzo, ma anche tenerezza e gratitudine nei confronti del mio paziente. Dario continuerà in effetti, nei successivi due mesi, a portare puntualmente il “succhino” alla sua dottoressa. Interrogandomi circa il mio vissuto nei confronti di questa bizzarra consuetudine, unita ai movimenti di preoccupazione del paziente nei miei confronti, comincio a domandarmi se non abbia involontariamente trasmesso a Dario un’immagine di fragilità e debolezza come terapeuta[xxv]. Ma un giorno, uno dei pochissimi sogni che Dario mi abbia mai portato in due anni di percorso insieme, mi aiuta a fare luce su quella che ora ritengo essere una forma di relazione di transfert, che, affrontata apertamente con Dario, credo mi abbia aiutato molto nel portare alla luce nuovi aspetti della vita psichica del paziente, in particolare in relazione alla figura materna[xxvi].

Nel sogno, Dario arrivava un giorno in seduta come sempre, senza però portare il famigerato succo. Dopo pochi minuti dall’inizio della seduta, ho un mancamento e svengo. Naturalmente, aggiunge Dario, a causa del mancato apporto di zuccheri che il succo mi avrebbe garantito. Lavoriamo insieme a lungo su questo sogno, ma anche sulle mie sensazioni controtransferali in relazione a questa curiosa routine che si era andata a creare. Il mio vissuto, prima ancora che Dario mi portasse questo sogno, era in effetti la sensazione che il mio paziente volesse nutrirmi. Anzi, dovesse nutrirmi. Come se, in mancanza del suo apporto (vitaminico = emotivo), io non fossi in grado di reggere, di “tenere”. Mi sono domandata se questo non potesse essere il vissuto che il paziente ha sperimentato fin dall’infanzia nei confronti di una figura materna vissuta, dietro un’immagine difensivamente idealizzata, come profondamente fragile, priva di consistenza e solidità, spaventata e preoccupata. L’idea che senza le premure del mio paziente io potessi “mancare”, mi rimanda alla mente tutte le fantasie fatte circa la necessità di Dario bambino di apparire eccessivamente grande, autonomo e performante, come se la sua mamma avesse avuto bisogno di questo bambino-non bambino per restare integra, per non venire meno[xxvii]. Come se non fosse stata abbastanza forte, abbastanza solida per reggere un bambino con i suoi bisogni, i suoi capricci, i suoi fallimenti. Di solito mi aiuta, nel lavoro terapeutico, immaginare il bambino che è stato il paziente. Con Dario questa operazione mi è stata impossibile: faccio estrema fatica, ancor oggi, ad immaginarlo bambino…la sensazione è precisamente come se fosse stato un piccolo adulto, già fatto e finito.[xxviii]                          

Dario ricorda di non essere mai stato sgridato. Se, in un primo momento, avevo pensato si trattasse di una falsificazione della sua memoria infantile, ho cominciato presto a pensare che potesse in qualche modo essere vero. Ma nel senso che Dario non portasse mai a tali situazioni, poiché impegnato nel costante sforzo di non dare alle figure di attaccamento preoccupazioni o delusioni. Quando in seduta gli comunico la mia sensazione che lui si stia prendendo cura di un oggetto che lui percepisce come poco solido, come se sentisse di non poter ricevere affetto a meno che lui non faccia qualcosa di buono in cambio, inizia ad associare vari elementi del suo rapporto con la madre. Ricorda, per esempio, che preferiva andare ai giardinetti accompagnato dalla sorella, poiché sua madre, quando lui correndo cadeva, si spaventava a tal punto, dice, “da andare in blocco”. Oppure, anche quando faceva qualcosa per cui un bimbo si sarebbe aspettato una sgridata o una punizione, per esempio se non studiava o tornava tardi dai suoi giri pomeridiani, il pensiero non era il timore di un adulto forte e solido che si impone con il dissenso e il biasimo, ma il dispiacere per aver dato una delusione o una preoccupazione (insopportabile) ad un genitore vissuto come pericolosamente fragile.

Dai suoi racconti, ho avuto la sensazione come se ci si aspettasse che lui sapesse gestirsi e amministrarsi da solo. Come se non potesse essere visto, semplicemente, come un bambino. All’interno di questo quadro, trova spiegazione il mio vissuto, nel ruolo di una terapeuta-mamma, stanca, malata o depressa, che lui non può permettersi di gravare con il suo peso di bambino-paziente e da cui non può aspettarsi cura, a meno che non faccia qualcosa in cambio per meritarlo.

Alice Miller (1975) parla delle capacità intuitive di certi bambini che sembrano percepire quasi in modo sovrannaturale vissuti, atteggiamenti, aspettative non dichiarate dei genitori: tali qualità dei figli possono essere inconsciamente usate dai genitori, che possono utilizzarli, ad esempio, come appendici narcisistiche per gratificare dei loro bisogni, la loro autostima. Dario racconta di aver detto alla mamma, quando aveva quattro o cinque anni, “Faele è tupido: dice dicchi anziché dicchi![xxix]: il non accettare la propria finitezza e il tentativo grandioso di sentirsi superiore ai propri simili sembra essere stato attivo in Dario in un’età davvero precoce, come mostra questa tenera scenetta del bambino piccolo che disprezza un amichetto proprio per il fatto di parlare come un bambino piccolo, non accorgendosi che è esattamente ciò che anche lui fa. E crescendo, continua a disprezzare i suoi coetanei, cercando continuamente la vicinanza e l’approvazione (peraltro sempre ottenute) di bambini e ragazzi più grandi, e da adulto, di figure prestigiose e uomini di alta levatura sociale.

Queste dinamiche sociali mostrano che, nelle personalità organizzate narcisisticamente, mentre il sé viene idealizzato gli altri sono o svalutati (pensiamo ai suoi grezzi compagni di gioco al circolo, oppure al cognato e i parenti con cui si rifiuta di trascorrere perfino il Natale poiché “gentaglia dal basso livello intellettivo”) oppure tenuti in grande considerazione, ma solo come fonti di prestigio riflesso. La grandiosità, (Kohut è il primo a usare il termine “Sè grandioso” per definire una polarità del mondo interiore del narcisista), infatti, può essere percepita all’interno del Sé oppure essere proiettata: queste persone hanno bisogno di mostrare, più che essere, di sfoggiare amici, piuttosto che vivere una relazione profonda con essi, studiano nelle scuole più rinomate, si affidano solo alle cure del medico più prestigioso: in questo senso, ritengo quasi tutto il primo anno di terapia una sorta di messa alla prova per stabilire se sarei stata la terapeuta più in gamba per lui.

Ma perché Dario fin da bambino comincia ad avventurarsi su questo percorso? Quale mondo affettivo e relazionale deve aver sperimentato questo bimbo di pochi anni tale da infondere gradatamente in lui il vissuto di non poter essere semplicemente ciò che è, ma di dover per forza essere “di più”?

Per comprendere i processi che hanno reso Dario, giorno dopo giorno, la persona che è entrata più di due anni fa nel mio studio, sfoggiando un senso ipertrofico di sè e gettando disprezzo su tutto ciò non appartenesse al “suo mondo” (me compresa), ma anche come egli si sia trasformato, attraverso il lavoro terapeutico, è opportuno fare riferimento a ciò che in letteratura è stato detto circa le dinamiche narcisistiche, sane e patologiche.

⸞ La costruzione del Sé : quale cammino per Dario? ⸟

Il Sé, inteso oggi come una struttura vera e propria, oltre che come funzione intrapsichica che si integra attraverso le esperienze di interazione con l’ambiente, fornisce una sensazione di continuità e coesione: è, in pratica, l’identità del soggetto come la percepisce il soggetto stesso. Kohut (1971), nei suoi lavori, descrisse il narcisismo come quell’istanza che permette all’individuo di costruire una consistenza psichica, una continuità e un senso di stima di sé, e pose l’accento sulle implicazioni, nella psicopatologia dell’adulto, di un’infanzia carente di oggetti che accompagnino in maniera adeguata, attraverso l’empatia, l’amorevolezza e il rispetto dell’altro, il bambino nel suo percorso di costruzione di un senso di Sé sano e coeso.

Molti pazienti come Dario, in effetti, appaiono completamente intrappolati nell’eterno confronto tra Io reale e Ideale dell’Io, una struttura psichica interna, l’entità a cui l’individuo tenderà sempre, che, prima imposta dall’esterno, viene a poco a poco interiorizzata e costruita attraverso “frustrazioni ottimali” da parte dei genitori (che rispettano, cioè, quel tanto che può essere tollerato dal bambino). Se tali frustrazioni sono inadeguate, eccessive o insufficienti, e se non esiste un valido rispecchiamento da parte dell’oggetto primario, può originarsi un intoppo evolutivo in termini di una vulnerabilità eccessiva rispetto alle tematiche narcisistiche. L’aspetto principale della struttura di personalità diventa così il bilancio affettivo-emotivo tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe/dovrebbe essere, bilancio che può apparire risolto in una mortificante perdita o nel trionfo più grandioso.

Secondo Kohut (1977), il genitore avrebbe il compito di svolgere, per il bambino, la cosiddetta funzione di Oggetto-Sé, in termini di rispecchiamento e idealizzazione. Gli Oggetti-Sé sono, infatti, coloro che alimentano, nel bambino, il senso di identità e di considerazione attraverso la loro conferma, ammirazione e approvazione.

In particolare, gli Oggetti-Sé favoriscono (o ostacolano) la strutturazione del Sé del bambino attraverso due speciali funzioni: la funzione Oggetto-Sé rispecchiante e la funzione Oggetto-Sé idealizzante. Nello sviluppo ottimale, il rispecchiamento è necessario poiché viene restituita al bambino la sensazione di essere visto, e l’autostima viene consolidata attraverso il fatto di amarsi perché sente di essere amato, nella sensazione di essere negli occhi dell’altro, occhi amorevoli di qualcuno che ci ama e ci accetta anche coi nostri difetti; l’oggetto funge, insomma, da specchio: la qualità positiva di ciò che il bambino interiorizza di sé stesso deriva precisamente da ciò che i genitori gli hanno rimandato attraverso il loro sguardo. Se ha la possibilità di “mettere dentro” una mamma che lo ama, finirà con l’amarsi lui stesso: così, l’amore materno introiettato diventa amor di Sè.

La funzione Oggetto-Sé idealizzante, invece, riguarda la necessità di accoglimento del bisogno del bambino di idealizzare le figure parentali: se l’Oggetto-Sé è disponibile all’idealizzazione del bambino, questo idealizza l’oggetto e trae gratificazione narcisistica dal fatto di sentirsi fuso con esso. Se tu sei perfetto, forte, solido, ed io sono parte di te, anche io sono perfetto, forte, solido. Inoltre, attraverso l’idealizzazione dell’oggetto genitoriale, si rinforzano il senso di sé e l’autostima attraverso il fatto di riconoscersi relazionalmente competente come l’adulto. Un deficit nella funzione Oggetto-sé idealizzante priva il bambino del modello di riferimento e lo lascia sprofondare nella desolante condizione di non saper funzionare in modo competente nelle relazioni interpersonali.

Infine, attraverso il cosiddetto processo di interiorizzazione trasmutante, l’investimento narcisistico si sposta dall’esterno all’interno: ciò che viene dapprima imposto come modello dall’esterno, diventa piano piano una struttura psichica interna, a cui l’individuo tenderà tutta la vita, l’Ideale dell’Io. Attraverso essa, il soggetto sostituisce gli Oggetti-sé esterni attraverso l’interiorizzazione dei loro aspetti funzionali e, grazie ad essi, inizia a costruire la struttura interna di un Sé solido e maturo[xxx]. L’esito patologico di questo percorso, che dovrebbe essere modulato da continue ed adeguate gratificazioni e frustrazioni[xxxi] (le cosiddette “frustrazioni ottimali”), deriverebbe secondo Kohut da un’inadempienza del genitore rispetto alle sue funzioni di Oggetto-Sé, ma può essere corretto attraverso la possibilità di una nuova relazione con un altro Oggetto-Sé, il terapeuta, che offra le gratificazioni narcisistiche che sono mancate, cosicché il Sé possa infine completare la sua strutturazione.

L’individuo caratterizzato da una strutturazione personologica organizzata in termini narcisistici ha, fondamentalmente, una personalità organizzata intorno al mantenimento della propria autostima tramite conferme provenienti dall’esterno. Il narcisismo, in sé, è una manifestazione dell’essere che sancisce, guida e marca il tempo nella vita di tutti gli individui, dal momento che riguarda la capacità che ognuno di noi ha di amare se stesso. E dunque di amare gli altri. Come tale, è una funzione che interessa la vita psichica di tutti gli individui. Ma, in alcuni casi, il percorso intrapreso da tale istanza in ciascuno di noi può prendere esiti di diversa natura.

Dario, nel racconto della sua storia di vita, porta abbondanti elementi che possono essere ricollegati alla dinamica narcisistica, in particolare a quella cosiddetta overt, o narcisismo grandioso o dalla pelle dura, secondo varie teorizzazioni.

La persona il cui Sé è organizzato in questi termini, manifesta di solito, nel suo modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri, caratteristiche tipiche come: un senso grandioso del Sé, un sentimento di superiorità, una continua richiesta di ammirazione da parte del mondo esterno; si presenta superbo e giudicante, arrogante e autocentrato, vede gli altri solo come strumenti, funzionali al raggiungimento di qualcosa di importante per lui. Questa particolare deriva della strutturazione del Sé sarebbe provocata da una funzione Oggetto-Sé rispecchiante inadeguata: per un eccessivo o carente rispecchiamento, il Sé resterebbe congelato alla fase dell’onnipotenza grandiosa del bambino di due anni. Così, la dimensione emotivo-affettiva del sé si presenta immatura, perché resta bloccata nella prima dimensione del Sé Grandioso, senza la possibilità che questa si moduli, come sarebbe opportuno. Il mondo interno del narcisista risulta, così, articolato su una dimensione di mancanza, di vuoto, che tenta di essere controbilanciato da un’ostentazione di qualità e attributi posticci, che poco hanno a che fare con l’essere.

L’altra dimensione del narcisismo, quella definita depressiva o covert (Wink, 1991), sembra essere totalmente all’altro capo del continuum. Dal momento che il Sé integra, nel narcisismo sano, immagini buone e cattive, se prevale in modo massiccio una sola parte (quella dell’inadeguatezza e della scarsa stima di sé), l’altra, quella delle rappresentazioni positive, viene scissa, tenuta fuori: non c’è integrazione tra le diverse componenti, che invece dovrebbero coesistere ed essere in contatto. L’individuo vive, così, la sua esistenza trascinandosi dietro un fardello di sentimenti di colpa, vergogna, inadeguatezza, insicurezza; la struttura del sé appare coartata, anchilosata, atrofizzata. Il profondo senso di inadeguatezza rende l’individuo inibito socialmente, schivo, praticamente invisibile, poiché pensa che ciò che ha da dire non sia interessante per nessuno e che riceverà rifiuti da tutti. Ma si legga l’onnipotenza presente anche dentro questa forma di narcisismo, come le due situazioni siano inserite dinamicamente in una struttura circolare perfetta: anche il più arrogante ed autocentrato dei narcisisti, infatti, trova il suo baratro depressivo sotto la sua crosta di perfezione, così come anche l’individuo più evitante e depresso appare onnipotente nell’esibizione dei suoi fallimenti sociali, amorosi, lavorativi.

Credo che, a fronte di un profondo senso di abbandono a sé stesso, Dario abbia avuto necessità di proporre al mondo un’immagine di sé caricata in senso grandioso. Se da un lato la mamma sembra essere stata intrusiva, abbiamo anche visto come, scavando più a fondo, Dario abbia evidenziato da parte sua una presenza-non presenza, a prima vista sì, ingombrante, ma soprattutto perché fragile e spaventata, incapace di tollerare con solidità i movimenti di autonomizzazione che Dario ha di volta in volta tentato nel corso della sua vita. Credo che, sotto l’apparenza di una madre asfissiante, Dario abbia sperimentato un vissuto di profondo abbandono, e che abbia difensivamente riletto in termini grandiosi i comportamenti di trascuratezza della mamma. La sua presenza silente viene sempre giustificata dal fatto che era lui ad essere così buono, efficiente e giudizioso, da non richiedere la sorveglianza della mamma (che dopotutto, “era sempre così stanca dal lavoro che figuriamoci se doveva pure occuparsi di un discolo quando tornava a casa”).

Credo che le fragilità e le eventuali mancanze della figura materna (qualunque esse fossero, ricordiamo che Dario ha relativamente detto poco di lei) siano state interpretate dal figlio, fin da quando era più piccolo, come un banco di prova dove poteva dimostrare di essere più degli altri, di farcela da solo. Dario ricorda, per esempio, durante uno dei ricoveri che dovette subire a causa della misteriosa malattia che lo tenne in scacco per qualche anno durante la prima infanzia, di essersi sentito grandissimo nel bere il suo thè, mentre agli altri bimbi le infermiere davano il latte, che lui all’epoca non poteva bere per questioni legate alla malattia. Racconta perfettamente il vissuto di trionfo che già da piccolino dice di aver vissuto nei confronti degli altri bimbi suoi coetanei, che lui viveva come mocciosi da snobbare.

Il the vissuto come una “cosa da grandi”, che mi fa sentire forte in un momento di fragilità, può forse fare da prototipo alle mille esperienze di paura, abbandono, tristezza, fragilità, che da bimbo può aver sperimentato: ma che succede se, anziché un genitore pronto ad accogliere con amore e pazienza tutti questi vissuti, ce n’è uno spaventato, depresso, insicuro, o orgogliosamente gratificato dal fatto che il suo bambino è così forte e autonomo nel reagire a tutto questo? Non sappiamo quale di queste situazioni il piccolo Dario abbia dovuto fronteggiare, ma man mano che procediamo nella terapia sembra sempre più sensato immaginare un panorama di questo tipo.

Ricordiamo poi, tornando alla tematica della sensibilità narcisistica, che nell’iperprotettività patologica vi è insito il messaggio subdolo e silenzioso del “tu non vali nulla, non sei in grado di”; a gravare ancor di più l’equilibrio e la strutturazione del Sé di Dario, un’ambivalenza di fondo in cui viene allo stesso tempo adultizzato (“se tu decidi di non andare all’asilo perché hai paura che ti prendano in giro, va bene è una tua scelta” …a quattro anni?! ) e svalutato (“fai bene a non andare all’asilo, perché non saresti[xxxii] in grado di reggere alle prese in giro degli altri bambini”).

Si diceva che il bambino dovrebbe poter sentire di essere amato solo per il fatto che esiste. Non perché fa delle cose. O perché è qualcosa che risponde ai bisogni dei suoi genitori. Se il bambino è amato non per quello che è realmente ma per la funzione che svolge, cioè viene usato come appendice narcisistica, può anche sentirsi molto apprezzato, ma solo per la funzione narcisistica che svolge, per cui potrebbe iniziare a credere che se vengono scoperti i suoi bisogni e i suoi sentimenti reali, specialmente quelli ostili, egoistici o di fragilità, verrà rifiutato o umiliato.[xxxiii]

Se si crea l’illusione di essere proprio quel bambino che i genitori volevano, a discapito di ciò che realmente è, egli continuerà ad essere una mera espansione del genitore, che lo investirà narcisisticamente dei suoi bisogni, senza rispettarne l’identità genuina e separata. Si è detto che insufficienti rispecchiamento e gratificazione della grandiosità naturale del bambino piccolo, sono dannosi per il suo sviluppo psichico. Ma lo stesso dicasi per il quadro opposto: una famiglia dove esiste un’atmosfera valutativa di orgoglio e plauso costanti è ugualmente dannosa per lo sviluppo di un’autostima realistica. Questo perché il bambino è continuamente consapevole di essere giudicato, anche se il verdetto è sempre positivo: nonostante il senso di onnipotenza che ne deriva, il bambino percepisce che c’è qualcosa di fasullo (ripenso a Dario nella fase in cui sembrava avere abbandonato le sue modalità grandiose e viveva il timore di essere un impostore immeritevole, tanto da essere irritato dall’adulazione generale che si era costruito intorno).

Nel racconto delle sue vicende, si avverte costantemente la presenza di uno sguardo esterno con una funzione di valutazione: non c’è mai nessuno che si rapporta a lui come lui è davvero, non può concedersi mai di essere un uomo/bambino come gli altri, perché tutti sembrano muoversi verso di lui misurandolo e parametrandolo, mai accettandolo per come è davvero. Lo faccio io, forse per prima. Quando mi dice, arrabbiato, “Ma possibile che non ci sia mai nessuno che abbia le palle di mandarmi a quel paese e dirmi di non rompere?!”, riferendosi al divieto non scritto, vigente al circolo, di mangiare davanti a lui ghiaccioli all’arancia, quelli della famosa indigestione, che adesso lo fanno star male solo alla vista…sembra davvero che gridi disperato da dietro quella corazza di soggezione e riverenza che lui stesso ha costruito per una vita e che ora lo soffoca[xxxiv].

Nella dimensione narcisistica grandiosa, l’altro serve al soggetto solo per fornirgli quello che gli manca: qualcuno che lo rifletta, lo ammiri soltanto. Non c’è una vera e propria relazione d’oggetto, poiché l’altro è solo un pezzo. Così Dario, nella prima fase della terapia, non riusciva ad investire sulla relazione, sull’oggetto-terapeuta, perché era troppo assorbito dall’investimento narcisistico sul Sé. Completano, infatti, la descrizione della struttura narcisistica di personalità una desolante mancanza di empatia[xxxv] ed un’inaccessibilità e distacco emotivi che mettono, spesso, a dura prova il curante, dal momento che la terapia con questi individui non si presenta come relazione, ma assomiglia più ad uno spettacolo pirotecnico a cui viene concesso di poter assistere. Anche fuori dalla stanza d’analisi, raramente hanno relazioni ad alto tasso di emotività: sono molto affascinanti e brillanti ma hanno poco spessore nelle relazioni, poiché non vi è nutrimento alla relazione stessa.

Nella prima fase della terapia (durata quasi un anno), le mie sensazioni controtransferali variavano tra noia, irritabilità e la sensazione snervante che non stesse succedendo nulla. Questo, probabilmente dovuto al fatto che la relazione non era, all’epoca, investita transferalmente: infatti, invece di proiettare sul terapeuta uno specifico oggetto interno, come un genitore, il narcisista spesso si limita ad esteriorizzare un aspetto del proprio Sé. Si potrebbe affermare che il paziente non percepisca il terapeuta come il padre o la madre, ma semplicemente proietti la parte grandiosa (nel caso di Dario) del Sé. Il terapeuta viene dunque usato per svolgere una funzione di mantenimento dell’autostima, invece che essere percepito come una persona intera, separata, una persona reale…è solo un Oggetto-Sé, un pezzo.

Il transfert stesso, in questi casi, è detto di tipo Oggetto-Sé, poiché non si tratta di vero e proprio transfert oggettuale (torna in mente il primo anno di terapia, in cui Dario sembra impegnato nell’operazione di “prendermi le misure”, allo scopo di stabilire se fossi una terapeuta abbastanza brava per lui: mostrandomi alla sua altezza, mi dimostro un Oggetto-sé gemellare, cioè un Oggetto-sé che gratifica il bisogno dell’individuo di sperimentare una somiglianza sostanziale). In questi casi, insomma, si assiste a un’estensione narcisistica del Sé attraverso l’altro, altro che si trova a fronteggiare la frustrazione del sentirsi usato solo parzialmente (Siani, 1992).

Autori come Winnicott (1965) hanno postulato che la situazione analitica sia assimilabile a una primitiva relazione madre-bambino, e che essa, silenziosamente, funzioni come un (buon) ambiente di contenimento. Rifacendoci alle primarie funzioni materne di holding (funzione di sostegno: il tenere il neonato in braccio e il contenerlo) e di handling (modo in cui il neonato è manipolato e accudito dalla madre: favorisce l’integrazione psicosomatica), cosi come la madre ha la funzione di “tenere” il lattante, l’analista tiene il paziente, per esempio esprimendo in parole, al momento opportuno, un qualcosa che trasmetta al paziente che l’angoscia profonda che sta provando può essere compresa. “Tenere” un bambino che sperimenta un eccesso di collera significa comprenderlo, rassicurarlo, accettarlo e mostrargli che la sua aggressività non è distruttiva per l’altro. Per questo (come è probabilmente accaduto con Dario all’inizio della terapia) può accadere che i pazienti sfidino il terapeuta, mettendolo alla prova; in questi casi, la capacità dell’analista di sopravvivere ai loro attacchi aggressivi è determinante al fine di rimandare al paziente un ambiente solido di contenimento e accettazione.

Modell (1984) sostiene che nella terapia coi pazienti narcisisti può configurarsi un peculiare primo periodo, come di pre-terapia, che lui descrive attraverso la metafora del “bozzolo”, che a volte può durare anche anni. Esattamente come è accaduto nella terapia con Dario, si tratta di un periodo estremamente frustrante per l’analista, poiché il rapporto si esprime fondamentalmente in una forma di non-relazione. La metafora del bozzolo che ben inquadra Modell descrive una condizione che vede il paziente racchiuso in un involucro, come un qualcosa di vivo ma ancora in stato di gestazione, che deve essere attaccato a qualcos’altro per sopravvivere. La sensazione che descrive l’autore nella stanza d’analisi, è precisamente quella che ho sperimentato con Dario per molti mesi, cioè che per molto tempo non accada nulla: il terapeuta sperimenta vissuti di noia e insofferenza, il paziente sembra non volere nulla da noi, né di volerci “usare” terapeuticamente, come in una sorta di negazione del bisogno del lavoro analitico.

Il bozzolo dei pazienti narcisisti è definito “un’organizzazione difensiva (…) poggiata su una sottostante illusione di onnipotente autosufficienza (…) che però coesiste a fianco di un’intensa e schiacciante dipendenza, espressa come fame insaziabile di ammirazione e approvazione” (Modell, 1984).

Si tratta di una barriera che non lascia passare nulla, né in entrata né in uscita: per questo, in questo primo periodo i commenti e le interpretazioni del terapeuta vengono dimenticati, lasciati cadere o nemmeno sentiti. Con Dario, infatti, a lungo ho avuto la sensazione di dover attendere pazientemente la naturale evoluzione del transfert, rispettando e inizialmente gratificando la sua fame insaziabile di ammirazione e attenzione, mettendo in pratica quello stato mentale che Kohut chiamava accettazione empatica del Sé Grandioso. Successivamente, con molta lentezza, ho potuto assistere al verificarsi di un graduale disgelamento della situazione relazionale: la dissoluzione del transfert del bozzolo permette il costruirsi di un’alleanza terapeutica, e questo perché l’ambiente di contenimento della prima fase ha permesso un sufficiente consolidamento dell’Io per cui il fulcro del lavoro analitico può avere luogo nella successiva. Se pur riluttante, il paziente comincia gradatamente ad accettare di avere una responsabilità nel lavoro analitico poiché “…non crede più alla propria autosufficienza, è in grado di riconoscere più direttamente le proprie richieste e non nega più la propria estrema dipendenza. Si giunge così a una iniziale individuazione, a un senso di separatezza e allo sviluppo dell’alleanza terapeutica”. Finalmente si ha la sensazione che, nella stanza d’analisi, esistano due persone.

Credo che, inizialmente, la situazione con Dario sia stata esattamente questa, almeno finché non ha ritenuto che fossi abbastanza per lui, da un lato, e che l’avrei accolto e amato anche con le sue fragilità, dall’altro: solo allora ha potuto usarmi come oggetto terapeutico. Se all’inizio c’era solo un’esibizione, un “mamma guarda cosa so fare” … ora posso dire, credo, che esista un “noi”.

Per quanto riguarda i transfert svalutativo e idealizzante (tipici della relazione con pazienti narcisisti), credo di averli sperimentati entrambi: il primo, quando all’inizio sentivo di esser oggetto di attacchi aggressivi e sottili svalutazioni, il secondo, quando Dario mi ha innalzato a sua dottoressa di elezione, quando ha visto i primi miglioramenti. In entrambi i casi, sentivo la strana sensazione come di non esserci nella stanza. Ed in effetti, era così. Fino a quando non ha cominciato a vivermi come una persona intera, a volermi bene, con i miei pregi ma anche i miei limiti. Ecco perché, oggi, rido con genuinità con lui quando, bonariamente, mi prende in giro sul fatto che mi brucio le mani cucinando, oppure perché sono sbadata e inciampo sulle scale.

Credo, anzi, sento, che pur continuando a stimarmi veda di me anche aspetti di fragilità, e riesca a tenerli insieme[xxxvi]: per questo, come non avrei fatto con altri pazienti, mi permetto di espormi maggiormente, stare al gioco e ridere con lui delle mie imperfezioni e goffaggini, allo scopo di testimoniargli che è possibile mantenere l’autostima e il proprio valore anche quando si ammettono i propri limiti.[xxxvii]

Oggi, Dario appare una persona differente da quella che entrò nel mio studio quasi tre anni fa. Sta molto meglio, dice, l’ansia generalizzata è del tutto sparita, se pur torni a fare capolino in determinate occasioni, quando lui stesso o il mondo esterno lo mettono alla prova spingendolo ad andare sempre più in là rispetto alle sue abitudini (nell’ultima seduta mi ha detto che sta valutando di accompagnare al cinema il suo amico Gian a vedere un film di fantascienza, storica passione di entrambi).

In seduta, adesso, mostra di essere in maggior contatto con le sue emozioni. Ho la sensazione, finalmente, di essere “usata” terapeuticamente: di recente, proprio il suo amico Gian ha rischiato quasi di morire per le complicanze di quella che sembrava una banale influenza, e Dario ha portato in seduta la sua angoscia e il suo dolore, facendomi sentire per davvero che provava il bisogno di condividerle con me. Cose che normalmente sono consuete, quasi banali, con moltissimi altri pazienti, con lui sono state una vera conquista. Ad esempio, il suo essere disposto a mettersi a nudo, mostrando le sue fragilità, la sua parte più debole…il suo essere bambino, non posso fare a meno di vivere questo come un dono. Sapendo, tanto più, che quello che ho davanti è probabilmente un ex bambino che ha dovuto dismettere il suo essere bambino, costretto ad una maturazione e ad una precoce autosufficienza psichica[xxxviii], dinamica tipica di quando l’ambiente di contenimento cessa di esserlo, rendendosi sterile e brullo attraverso l’assenza o l’indisponibilità emotiva.

Poco tempo fa, Dario ha preso appuntamento in banca con un consulente e si sta interessando alla sua situazione economica: ha preso consapevolezza del fatto che, prima o poi, i soldi che sua madre gli ha lasciato finiranno. Sta prendendo contatto con il pensiero di cercare un lavoro con cui sostentarsi. Infine, parla di suo padre in termini meno difesi e mi ha timidamente fatto intendere che sta valutando di cercare un contatto con lui.

Sa che il mio percorso di tirocinio in Asl finirà tra pochi mesi ed ha affermato di voler proseguire la terapia con me, privatamente. Abbiamo parlato dell’ipotesi di un termine, ma c’è troppo ancora da fare. Abbiamo recentemente toccato argomenti come matrimonio e genitorialità, e dice di accorgersi di quanto ancora sia distante da una vita normale. Per questo non vuole fermarsi qui, nonostante si senta molto meglio.

In questo periodo, mi ha timidamente confessato di avere un interesse per una ragazza del suo quartiere, una barista. La prima donna di cui mi parla, in quasi tre anni, oltre a Serena. Diversamente da come ha agito in passato, credo stia valutando di provare a conoscerla. Lo penso perché non le ha ancora detto di soffrire di un disturbo d’ansia: di solito, invece, lo sbatteva subito in faccia alle persone, come per dar loro la possibilità di rifiutarlo in partenza, o ancora, come per mettere le mani avanti e assicurarsi che nessuno gli chiedesse un qualcosa che potesse metterlo a disagio, per il semplice fatto di non riuscirci. Credo sia consapevole delle differenze che troverebbe stavolta rispetto al rapporto che ha con Serena: con lei, quando se ne ha voglia, ci si vede. Ma se non se la sente perché ha l’ansia e sta male, pazienza, sarà per la prossima volta. E mai più un contatto fino ad allora. Il messaggio è, forse per l’ennesima volta: ci sono se riesci, se non riesci sei da solo. Per questi motivi, ritengo che l’avvicinamento che Dario sta tentando con questa nuova donna (prima donna, si può dire, in tre anni di terapia) sia un’ulteriore testimonianza della sua ritrovata capacità di vivere l’Altro, in una relazione, e vivere se stesso come degno di essa. Il pensiero che qualcun altro possa desiderare di stargli accanto, accettarlo e amarlo anche con le sue fragilità, con i suoi limiti, comincia forse a fare capolino nella sua mente. Qualcun altro, oltre alla sua terapeuta.

Siamo sulla scaletta. Siamo a metà della scaletta che potrebbe riportare Dario sulla terraferma, come un novello pianista sull’oceano allo stesso tempo ansioso e timoroso di prendere in mano la sua vita. La paura dell’ignoto, del possibile, della vita… “tutto quel mondo addosso, che non sai dove finisce e quanto ce n’è, ma non avete paura di finire in mille pezzi solo a pensarla quella enormità? a viverla...”. Sono queste le parole di Novecento, il protagonista del romanzo di Alessandro Baricco che tanto mi ricorda Dario, poco prima di scegliere di tornare sulla nave, alla sua casa, alla sua vita, così come l’ha sempre conosciuta. Non ha mai messo piede sulla terra ferma, non ha mai avuto una casa, un lavoro, una donna. È nato su quella nave, cresciuto solo con la sua musica. E sceglie di restare in essa. Di morire in essa…quando la vecchia nave ormai dismessa viene fatta esplodere. Dario è su quella scaletta, come Novecento, in attesa di decidere se tornare a bordo oppure scendere, per provare a mettere radici nel mondo, nella vita vera. Io gli tendo la mano dalla banchina. Solo il futuro potrà dire quale sarà la sua scelta.

 

“ Tutta quella città… non si riusciva a vederne la fine…

la fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?

Era tutto molto bello su quella scaletta, e io ero grande, con quel bel cappotto, facevo il mio figurone,

e non avevo dubbi che sarei sceso...non c’era problema.

Non è quello che vidi che mi fermò, Max… è quello che non vidi.

Puoi capirlo? Quello che non vidi… in tutta quella sterminata città c’era tutto, tranne la fine.

C’era tutto! Ma non c’era una fine.

Quello che non vidi è dove finiva tutto quello, la fine del mondo.

Tu pensa ad un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono.

Ma tu lo sai che sono ottantotto, e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro: tu sei infinito;

e dentro a quegli ottantotto tasti la musica che puoi fare è infinita.

E questo a me piace, in questo posso vivere.

Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti,

milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai

– e questa è la verità: che non finiscono mai –

quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita

allora non c’è musica che puoi suonare! Sei seduto sul seggiolino sbagliato:

quello è il pianoforte su cui suona Dio.

Cristo, ma le vedevi le strade?! Anche soltanto le strade, ce n’erano a migliaia!

Ma dimmelo, come fate voi altri laggiù a sceglierne una?

A scegliere una donna? Una casa? Una terra che sia la vostra? Un paesaggio da guardare?

…Un modo di morire?

Tutto quel mondo addosso, che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è,

ma non avete paura voi di finire in mille pezzi solo a pensarla quella enormità?

Solo a pensarla, a viverla!

Io ci sono nato su questa nave. E vedi anche qui il mondo passava,

ma a non più di duemila persone per volta.

E di desideri ce n’erano, ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa.

Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato a vivere in questo modo.

La terra è una nave troppo grande per me. È una donna troppo bella, è un viaggio troppo lungo, è un profumo troppo forte…

È una musica che non so suonare.

Non scenderò dalla nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita ”

  (Alessandro Baricco)


Bibliografia

Baricco, A. (1994). Novecento. Un monologo. La Feltrinelli, Milano 1994.

Bateman, A & Holmes, J. (1995). La psicoanalisi contemporanea. Teoria, pratica e ricerca. Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.

Bowlby, J. (1975). Attaccamento e perdita vol 2: la separazione dalla madre. Boringhieri, Torino.

Chiappero, P. (2003). Disturbo di panico e terapia psicoanalitica, in Rovetto, F. Panico. Origini, dinamiche, terapie. McGraw-Hill, Milano 2003.

Freud, S. (1922). L’Io e l’Es. OSF IX. Boringhieri, Torino 1973.

Freud, S. (1924). Il tramonto del complesso edipico. OSF X. Boringhieri, Torino 1973.

Gabbard, G. (1994). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editor, Milano 1999.

Klein, D.F. (1993). Panic disorder with agoraphobia. British journal of Psychiatry, 163, 835-837.

Kohut, H. (1971). Narcisismo e analisi del Sé. Boringhieri, Torino 1976.

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MacWilliams, N. (1994). La diagnosi psicoanalitica. Astrolabio, Roma 1999.

Miller, A. (1975). Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé. Boringhieri, Torino 1997.

Modell, A.H. (1984). Psicoanalisi in un nuovo contesto. Cortina Editore, Milano 1992.

Racker, H. (1957). Il significato e l'impiego del controtransfert, in Albarella, C. e Donadio, M. (a cura di). Il controtransfert. Liguori, Napoli 1986.

Robertson, J. e Bowlby, J (1952). Responses of young children to separation from their mothers, in Courrier Centre Internationale Enfance, 2, pp. 131-42.

Siani, R. (1992). Psicologia del sè. Da Kohut alle nuove applicazioni cliniche. Boringhieri, Torino

Wink, P. (1991). Two faces of narcissism. Journal of Personality and Social Psychology, n.61, 1991.

Winnicott, D.W. (1965). Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Armando Editore, Roma 1974.

NOTE

 

[1]forse perché stonava con l’immagine del figlio super performante?

1 Non è raro osservare nei pazienti affetti da disturbi di panico alcuni meccanismi che richiamano il concetto di vantaggio secondario e agiscono da fattori di mantenimento, come ad esempio una figura di riferimento apprensiva o terrorizzante che non promuove l’autonomizzazione di un figlio o di un coniuge perché incapace di rinunciare alla gratificazione derivante dal rapporto di dipendenza. Ambedue le figure familiari dell’esempio, rinforzano (spesso inconsciamente) i timori del paziente/familiare, mantenendolo ancora di più in uno stato di dipendenza (Rovetto, 2003).

2 Famosa strada di Genova, che, costruita su strutture sopraelevate rispetto al terreno, cinge ad anello la zona del porto mettendo in comunicazione il centro con il ponente della città.

3 Osserviamo qui un meccanismo difensivo di fuga nella fantasia, attraverso il quale costruisce un mondo fantastico dove può attaccarmi, ammettere di farlo, avere una vittoria su di me.

4 Non potevo saperlo, ma attraverso la descrizione del suo gioco, Dario mi stava regalando la prima descrizione di sé.

5 Un adulto che lo guarda gratificato per le capacità dimostrate. Col senno di poi, mi domando se non fossi l’ennesimo adulto a guardarlo con questi occhi.

6 Tranquilla del fatto che, presso il mio distretto, è possibile condurre psicoterapie a lungo termine, senza osservare l’obbligo degli 8+8 colloqui, come in altri CSM.

7 Anche qui, evidentemente, Dario era riuscito a spostarmi dalla relazione al piano del concreto.

[viii] Alla luce delle informazioni ora in mio possesso, è probabile che all’epoca una delle motivazioni alle spalle della sua richiesta fosse anche il desiderio di “esibirmi” in situazioni sociali, come un prolungamento narcisistico del Sé.

[ix] Allora non lo avevo del tutto chiaro, ma implicitamente gli stavo domandando se avrebbe desiderato che qualcuno dimostrasse di non avere paura di lui.

[x] Una volta tanto, il vantaggio secondario tipico dei Disturbi di Panico appare smascherato in partenza.

11 La sua consueta aggressività tornava a fare capolino di tanto in tanto, ma non era più l’atmosfera che accompagnava la seduta dall’inizio alla fine.

12 Era, in effetti, una donna molto anziana, per cui avrebbe sicuramente potuto essere scambiata per la madre del paziente. Ciò che mi colpì fu l’insistenza nel ribadire questo aspetto, dimostrata da lei sia di persona che nella nostra prima telefonata, ma anche da Dario, in molti dei suoi racconti.

13 Dado è il nomignolo con cui veniva chiamato in famiglia dalla nipotina -quasi coetanea- quando erano piccoli.

14 Un esempio di controtransfert concordante: come Dario, forse, non riesco proprio ad averla in testa questa mamma.

15 Mentre a me rimane in testa un quesito: Dario non ha una fidanzata per colpa dell’ansia o l’ansia gli serve perché non vuole una fidanzata? Magari perché è spaventato dalle relazioni, perché ha appreso che la relazione con l’oggetto significa esserne fagocitati, non essendo contemplata la possibilità di una giusta distanza.

16 L’idea che proprio Dario fosse il bambino che si era fatto la pipì addosso quel primo giorno, si affacciò subito alla mia mente, ma naturalmente all’epoca non approfondii.

17 Credo che Dario, in quel momento, abbia sperimentato di potersi sentire accolto, accettato, e perché no, amato, anche al di fuori della sua corazza di infallibilità e invincibilità. Ma anche, allo stesso modo, al di fuori della ragnatela dell’inettitudine e del bisogno di accudimento (dimostrato, per esempio, con la sorella). Il mio riconoscere e accettare amorevolmente le sue difficoltà, senza cavalcarle per renderlo dipendente o al contrario viverle come un vergognoso fallimento di status, credo abbia costituito per Dario quella terra di mezzo necessaria per iniziare a sperimentare serenamente un sentimento di Sé più reale e autentico.

18 Un sostituto paterno che lo abbandona. Il che rende più traumatico l’evento per il paziente, che non aveva sperimentato in passato una vera e propria fase edipica.

19 Dario fa quasi tenerezza parlando di sé, del vecchio Dario, da cui cerca di allontanarsi, in terza persona.

20 Come accaduto per esempio con l’esperienza della Cresima, dove entrano in gioco due passaggi importanti: il comunicare la sua paura, e quindi il superamento della vergogna e l’ammissione delle proprie fragilità, e la successiva riuscita, dimostrazione che può riuscire a superare una situazione molto ansiogena, cosa che lo rinforza positivamente.

[xxi] Ricordiamo il famoso documentario realizzato negli anni ’50 dai coniugi Robertson in collaborazione con Bowlby, in cui si mostrano le reazioni affettive e comportamentali alla separazione dalla madre dei piccoli pazienti ospedalizzati.

[xxii] È possibile, qui, azzardare una riflessione su come anche tecniche della psicoterapia cognitivo comportamentale possano essere rilette psicodinamicamente, ad esempio si noti in questo caso l’accesso, per Dario, ad una costanza oggettuale precedentemente assente.

[xxiii] Un probabile esempio di sentimenti scissi: una mamma idealizzata nonostante il suo probabile assenteismo, comunque preferibile all’abbandono completo del papà, che sparisce quasi completamente quando Dario ha circa dodici anni.

[xxiv] Tale dinamica può forse essere interpretata come una temporanea ricongiunzione in senso riparativo con la figura paterna, attraverso il cognato, che ha come effetto una rivisitazione della figura paterna del passato alla luce del presente.

[xxv] McWilliams descrive i vissuti del terapeuta di pazienti organizzati narcisisticamente: “…La tendenza a sentirsi sminuiti come terapeuti è un rispecchiamento praticamente inevitabile delle preoccupazioni centrali del paziente circa il proprio valore.” (McWilliams, 1994).

[xxvi] Racker identifica nel controtransfert complementare la situazione per cui il terapeuta assume uno stato emotivo analogo a quello di un oggetto significativo dell’infanzia del paziente: come per una sorta di induzione inconscia di vissuti e stati mentali da parte del paziente, egli mostra con potente precisione quale è stata la sua storia infantile in relazione a quel determinato oggetto (Albarella e Donadio, 1986).

[xxvii] Più volte nel corso della terapia con Dario ho fatto la fantasia di una severa depressione, o una malattia, che possa aver tenuto in scacco la madre quando lui era piccolo.

[xxviii] Un piccolo adulto che fa, appunto, il genitore della sua mamma, portandole qualcosa (il succo di frutta) per aiutarla/rianimarla.

[xxix] “dischi”

[xxx] Kohut stesso ha efficacemente paragonato il processo di interiorizzazione trasmutante al “processo metabolico che permette di assimilare gli alimenti, scinderli, estrarne le proteine e con queste costruire o irrobustire i vari organi, secondo un processo di sviluppo armonico del proprio organismo” (Siani, 1992).

[xxxi]  Importantissimo ridimensionare e frustrare il senso di onnipotenza originario del bambino, ma è dannoso, ugualmente, nullificarlo.

[xxxii] Saremmo?

[xxxiii] Winnicott (1965) individua in situazioni di questo tipo il germe per lo sviluppo del Falso Sé.                                       

[xxxiv]  Per questi motivi, credo di essermi guadagnata prima il suo rispetto e poi la sua fiducia quando, dopo la fase iniziale in cui assistevo al suo “show”, sentivo come di dover rispondere alla sua sfida, opponendomi a lui senza farmi schiacciare, superando a poco a poco il timore reverenziale che aveva suscitato anche in me, accettandolo nelle sue fragilità e mostrandogli che si può essere vicini anche (e soprattutto!) giù dal palcoscenico.

[xxxv] O meglio, si tratta di un’empatia che ha lo scopo di soddisfare bisogni di apprezzamento, e quindi ancora narcisistici.

[xxxvi] La percezione del paziente è sì più realistica, ma esiste, credo, un’ulteriore lettura: la fragilità della terapeuta gli serve anche per evitare la paura che parallelamente ad una sua diminuita grandiosità possa trovarsi di fronte ad un nuovo oggetto grandioso, di fronte al quale dovrebbe soccombere o sentirsi inferiore

[xxxvii] A tal proposito, ricordiamo che Kohut fu uno dei primi a suggerire l’ammissione aperta degli errori del terapeuta, specialmente riguardo alle mancanze di empatia: in modo da fornire, da un lato, una conferma e una legittimazione allo stato d’animo del paziente, e dall’altro offrire un esempio di come si può reggere nonostante l’ammissione della propria fallibilità.

[xxxviii] Non posso fare a meno di pensare a quanto questa autosufficienza psichica sia stata sempre accompagnata, nella vita concreta, dall’insicurezza e dal “non poter fare” dettato dal disturbo d’ansia, quasi come se quest’ultimo, con tutte le limitazioni e i vincoli cui ha costretto il paziente, si fosse innestato sulla struttura narcisistica grandiosa, come a volerla smorzare, nullificare, dileggiare.

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