Ascoltare, riflettere attraverso i pixel. Di Fabio Martino
Ippocrate di Coo ha scritto che “descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo è il compito della medicina” per indicare la capacità del medico, partendo dal presente, di fare diagnosi e prevedere la prognosi, sia della malattia, sia del suo intervento. In questo periodo mi sono tornate alla mente queste parole e mi sono interrogato se sono stato in grado di comprendere quello che stava accadendo e nel caso se sono stato capace di farmi un'idea di come intervenire al meglio o se un evento traumatico di tale portata mi ha colto impreparato sia sul piano personale sia sul piano professionale.
Da quando è iniziata l'emergenza sanitaria si è tanto parlato del virus, dell'isolamento in cui ci costringe a stare, del numero di contagiati, del numero di morti, delle file al market, in pochi però si sono fermati a parlare della paura di morire e della paura di morire soli che questo nemico invisibile ci ricorda quotidianamente. Paure reali e concrete. Come ho reagito di fronte a questi due temi così devastanti e angoscianti? Probabilmente ho deciso di scrivere un saggio sul tema del corona-virus e delle sue implicazioni forse anche per cercare delle risposte e alcune rassicurazioni in un momento in cui tutto è stato messo in dubbio.
Come nota Mc Williams (2020), “tra le fantasie del genere umano vi è la convinzione che da qualche parte ci sia un onnipotente, onnisciente Altro che può aggiustare tutto”, abbiamo investito la scienza di questo potere: prima dell'avvento del Covid-19 credevamo di poter gestire e controllare ogni cosa, la medicina poteva magicamente salvarci da tutto e in qualsiasi momento, in Italia un primo scossone alle fondamenta dell'onnipotenza lo abbiamo avvertito il 14 agosto 2018 quando il crollo del ponte Morandi ha sancito che la scienza, l'unica che può proiettare l'uomo nel futuro senza limiti che non commette mai errori, attraverso l'ingegneria, che sposta fiumi, scava montagne, collega paesi in nome del progresso, ha mostrato la sua fallacia, le sue fragilità e le sue imperfezioni. Se prima avevamo solo certezze, ora la sensazione è di non avere più nulla a cui aggrapparci. L'onnipotenza in cui viveva il genere umano è stata sgretolata.
Penso che nelle fasi iniziali, almeno per quanto mi riguarda, un forte senso di impotenza e di angoscia mi abbia pervaso, generato forse dal dover affrontare per forza il tema della morte, in un momento in cui tutto era vissuto, almeno da me, come vulnerabile e attaccabile. Mi tornò in mente il seminario tenuto dal Professor Migone proprio sulla morte. Mi colpì il suo inizio, ci fece notare come solo per questo tema, la morte, avevamo chiesto quali strategie tecniche dovevamo usare per gestire e affrontare tale discorso come se fosse diverso da altri contenuti portati in discussione dai pazienti. Con altri temi non avremmo fatto la stessa domanda avremmo indagato che senso dà a quell'argomento quel paziente. In fondo lo scopo della psicoanalisi non è forse quello di studiare il senso che ognuno dà alle cose? Quello che proponeva era “di non considerare la morte come un evento doloroso particolare rispetto agli altri( come si farebbe seguendo una determinata filosofia o concezione di morte), anche se si può obiettare che esso è di gran lunga il più significativo in quanto relativizza tutti gli altri. Ma l'impatto di qualunque evento dipende dai valori adottati dal soggetto e dai significati che esso assume in quel determinato momento del ciclo vitale. Non a caso gli eventi di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie: i timely events, eventi prevedibili che avvengono in un tempo normale ad esempio la morte dei genitori, e gli untimely events ,eventi non prevedibili che vanno contro al tempo che regola le aspettative della nostra esistenza ad esempio la morte di un figlio, una malattia inaspettata, un qualunque evento doloroso che non è previsto dalle nostre aspettative per cui siamo meno preparati.
Quindi la morte può assumere significati molto diversi, e l'impatto della morte, come di qualunque dolore, varierà a seconda dei rispettivi significati che ad essa darà ogni singolo paziente, del suo sistema di valori e secondo la sua maturità o struttura psicologica, cioè il suo apparato difensivo” (Migone, 2006).
Penso che l'ansia o l'angoscia o il senso di impotenza che inizialmente provavo si siano attenuati nel momento in cui sono riuscito a fare ciò che suggeriva il Professore, ovvero posizionarmi e dare un senso proprio al tema della morte come evento imprevedibile, o per lo meno il dolore si è attenuato quando ho iniziato a prenderlo in considerazione. In quel momento mi sono reso conto che, come ho avuto modo di osservare in comunità quando i pazienti più gravi che non hanno ancora preso contatto con il loro disagio, allorché un altro paziente gli fa da specchio sulla loro malattia si difendono dicendo: “io sono diverso da questi matti qui...”, “... non è un posto per me...” “... che ci sto a fare qui!”, la paura mi faceva dire “io non ho paura”, “sono preoccupato per i miei cari”, “ho paura di contagiare i miei pazienti più fragili”, negando che forse il paziente più fragile, che in quel momento volevo difendere ero proprio io.
Se prima tutto era vissuto come un caotico sovraccarico, ora sentivo di aver “messo ordine” nei miei pensieri, creando così uno spazio, che mi ha permesso di ritrovare la voglia e il piacere di riprendere il mio lavoro al consultorio. Ora potevo pensare ai pazienti che seguivo, a come potessero stare, a come stavano affrontando l'emergenza sanitaria, fantasticavo sulle modificazioni al setting per poter portare avanti il lavoro mettendo in campo tutte le precauzioni che la nuova situazione imponeva, sia per proteggere me, sia per proteggere i pazienti.
Uno spazio
All'inizio dell'emergenza sanitaria, il consultorio ha bloccato tutte le attività a scopo precauzionale e così ho avvisato i pazienti della temporanea sospensione. Quando ho ritrovato la forza di riprendere il lavoro, ho contattato la mia tutorio per chiederle se si poteva ripartire con gli incontri e con che modalità. Mi rispose che il lavoro iniziato in ambulatorio si doveva continuare telematicamente, almeno fino a quando l'emergenza sanitaria non fosse rientrata.
In passato ho avuto la possibilità di sperimentare lo strumento digitale come possibilità di portare avanti il lavoro iniziato con un paziente, che al termine si era dovuto trasferire lontano da Pisa. A mio avviso funzionò perché la relazione era strutturata e forte, vi era una forte alleanza terapeutica, il nuovo lavoro era un supporto alla nuova esperienza che il ragazzo stava affrontando. Ero scettico di poter usare la stanza virtuale al pari della stanza reale. Anche se non ero entusiasta di usare lo strumento tecnologico, forte delle parole di Freud (1912) secondo cui “il lavoro analitico richiede di essere intrapreso nelle condizioni che ne garantiscono il massimo il successo”, pensando a quanto potesse essere utile trovare qualcuno, che anche attraverso un video, fosse lì ad ascoltare e ad accogliere le paure le angosce del momento e, che l'unico modo per tutelare entrambe le parti da un eventuale contagio fosse quello di fare gli incontri telematicamente, decisi di continuare nonostante le mie perplessità.
Avvisai i pazienti di questa possibilità: due hanno accettato, una ha preferito rimandare gli incontri alla riapertura fisica dell'ambulatorio, uno non ha mai risposto ai miei messaggi.
Mentre mi preparavo al lavoro terapeutico telematico mi sono interrogato sulle implicazioni e sulle ricadute che tale strumento avrebbe apportato all'alleanza terapeutica, al setting alla relazione che avevo instaurato e agli obiettivi. E poi mille domande come mi sarei comportato? Sarebbe stato veramente una continuità o sarebbe stato tutto diverso? Come si sarebbero comportati i pazienti? E io? Sarei stato in grado di gestire il tutto?
Mi tornò alla mente il lavoro di Migone (2003) in cui parlava del concetto di “parametro” introdotto da Eissler per indicare ogni cambiamento della “tecnica classica”, che per lui era a parametro zero. Scrive Migone (2003) che “per Eissler una tecnica può essere chiamata ancora psicoanalitica quando l'introduzione del parametro è giustificata dai seguenti quattro criteri: deve essere introdotto solamente quando sia provato che la tecnica di base non è sufficiente; non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; deve condurre alla sua auto eliminazione; le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali che non possa più essere abolito dall'interpretazione”.
Eissler, ribadendo per la psicoanalisi il valore ideale della "tecnica classica", ammise l'utilizzo di parametri ma a patto che fossero ridotti al minimo e che in qualche modo potessero in seguito rientrare nell'intero processo interpretativo (Migone, 2003). Anche se avevo introdotto “un parametro”, o modificato un elemento del setting, di fatto stavo ancora facendo il mio lavoro. Se per setting o cornice psicoanalitica s'intende l'insieme delle condizioni necessarie per assicurare lo svolgimento ottimale del processo psicoanalitico, in questa situazione la condizione necessaria affinché potessi assicurare lo svolgimento di tale procedimento era quello di avvalermi di una stanza virtuale. Uno dei vincoli cui prestare attenzione è, che “le condizioni” devono essere concordate e accettate sia dal paziente sia dal terapeuta. Quindi insieme ai pazienti dovevo costruire un nuovo setting esterno perché l'assetto interiore avrebbe dovuto rimanere lo stesso.
In fondo come dice Migone (2003) "il setting classico è un setting come un altro, solo che evocherà il suo tipo di transfert. Ogni paziente reagirà ad un determinato setting non secondo un modello ideale che noi riteniamo valido indiscriminatamente per tutti i pazienti, perché è il transfert stesso, cioè le precedenti esperienze fatte dal paziente, che determina il modo con cui verrà vissuto il setting stesso". A mio avviso sia che si tratti di setting classico sia che si tratti di setting modificato da parametri l'importante è mantenerlo costante, in modo da poter analizzare cosa sta succedendo in quello spazio, “Freud osserva che il transfert non è appannaggio della psicoanalisi e che esso si produce in altre circostanze della vita, ma è solo nella cornice dell'analisi, il setting, che può essere elaborato” (Quinodoz, 2005).
Nella stanza virtuale mancherà il lettino, però l'attenzione resta fluttuante, vige sempre la regola aurea della psicoanalisi della libertà del paziente di comunicare tutto ciò che gli viene in mente “senza sottoporre a critica e selezione tutto ciò che gli passa per il capo” (Freud, 1912), vi è sempre la possibilità di lasciarsi sorprendere, bisogna sempre prestare attenzione per “evitare errori come la “psicoanalisi selvaggia” che consiste nel comunicare al paziente bruscamente quelli che il medico ha scoperto essere i suoi segreti” (Freud, 1910), posso sempre interpretare quello che sta succedendo. Tutto sommato le modifiche non sono così radicali.
Inizio il lavoro online secondo le indicazioni del consultorio. Con la prima paziente, Adriana, non emergono problematiche nella gestione della chiamata: mi video-chiama nei tempi concordati, definiamo alcuni particolari, lei inizia a raccontare da dove ci eravamo lasciati riportando le ansie e le angosce dell'emergenza sanitaria, le chiedo se si è trovata bene in questa modalità e se vuole continuare. Ricevendo risposta affermativa, fissiamo per l'incontro successivo e ci salutiamo.
La seconda seduta che ho fatto telematicamente è iniziata in modo inaspettato. Con la paziente, Franca, ci siamo dati appuntamento telefonico concordando, che avrebbe chiamato lei il tal giorno alla tal ora. Quel giorno, vedendo che Franca non chiamava, provo ad aspettare. In quell'attesa mi faccio mille domande: e adesso, che faccio? In ambulatorio è successo che abbia saltato un incontro o che abbia chiesto di spostarlo per impegni improvvisi, che stia capitando lo stesso? Forse un attacco al setting? Penso a cosa fare. Dopo cinque minuti di silenzio in cui aspetto che Skype squilli, decido di chiamarla, mi preparo diversi scenari con altrettante risposte. Faccio partire la video chiamata con la paura che non parta. Inizia a squillare e lei prontamente risponde. Ci salutiamo, le chiedo scusa per la chiamata, lei inizia a parlare sulla mia pausa, dice che mentre stava aspettando pensava da dove partire, le chiedo in che senso stava aspettando, mi risponde che stava aspettando che si aprisse il collegamento e “come quando sono in ambulatorio da lei, mentre aspetto sulle panche, penso...”.
Quello che mi ha fatto riflettere a termine del colloquio è stato il fatto che se fossi rimasto fedele a quello che ci eravamo detti e non mi fossi adattato chiamandola avrei: perso l'incontro con la paziente, con il rischio di compromettere il lavoro futuro; avrei commesso un errore di valutazione pensando che fosse magari un attacco al setting quando invece lei lo rispettava, organizzava i pensieri per quando sarebbe entrata nella stanza virtuale; inoltre aspettava perché magari, nella sua fantasia, la stanza era ancora occupata; mi ha dato l'occasione di conoscere maggiormente la ragazza: è riuscita a stare sull'attesa, si è mostrata educata, ricollegandosi alla stanza fisica dell'ambulatorio mi ha fatto sentire che si sta costruendo una relazione a cui tiene e che anche se si trova in un altro tipo di stanza sente che le cose si possono portare e raccontare; che anche il virtuale ha una sua ritualità.
Quello che vorrei sottolineare è che questa esperienza ha rafforzato in me l'idea che la cornice analitica non si costruisce imponendo solo delle regole, a cui magari ci si crede poco anche noi, e da esperienza come educatore quando assumiamo una facciata non nostra prima o poi un paziente o una situazione ci presentano il conto, ma che di volta in volta, almeno nelle fasi iniziali, tali regole si concordano anche tacitamente come è successo con la mia paziente, ora so che lei è in sala di attesa e io apro la porta-connessione per accoglierla, ma la apro sempre alla stessa ora e con il solito benvenuto.
Uno sguardo alle stanze
L'emergenza sanitaria ci ha imposto cambiamenti radicali. Cambiamenti epocali sono avvenuti nel giro di pochi giorni. Sono anni che la comunità psicoanalitica dibatte sull'uso di internet, senza mai arrivare ad una conclusione, forse perché ci si fermava in una presa di posizione senza una vera riflessione sul metodo che si avvale di uno strumento quale è internet.
Gli elementi caratteristici, una stanza concreta, un terapeuta e un paziente fisicamente presenti si trasformano in stanza virtuale e virtualmente presenti, che implicazioni ha sul processo terapeutico? Come viene vissuto dal paziente? E dal terapeuta? Che impatto ha sulla relazione? Si può ancora parlare di setting? O anche lui si è trasformato in qualcosa di altro? Noi entriamo nelle vite delle persone più di quello che facevamo prima, se quando venivano in studio ci portavano una sorta di virtuale delle loro vite, dove per virtuale intendo “l'esistente in potenza” ovvero che pur essendo frutto di un'elaborazione, che pur segue un modello realistico, non riproduce mai una situazione reale, ora entriamo realmente nei loro spazi intimi, vediamo con i nostri occhi come organizzano il loro spazio, se sono più o meno ordinati, se sono soli o con altri, se gli altri rispettano i loro spazi e la loro privacy, quanto si sentono liberi di parlare... Si potrebbe andare avanti all'infinito. Quello che mi chiedo è che implicazioni ha tutto questo.
Il nostro lavoro si basa su una relazione che si crea perché noi diamo fiducia a quello che ci racconta il paziente, lo dice in quanto per lui vero, in questo modo si potrebbe sentire nudo? Racconterà sempre allo stesso modo o per paura di essere “sbugiardato” da qualche indizio che pensa che noi troveremo nella sua intimità si racconterà più concretamente di prima? Adriana, durante un incontro on-line, mi ha riportato le ansie scaturite dall'esame, che avrebbe dovuto sostenere nei giorni successivi: “... quello che mi da fastidio è che devo fare il giro della stanza per mostrare che non ci sia nessuno e che non ci sia materiale da cui copiare durante l'esame...lo capisco perché già così i miei compagni si inventano le peggio cose pur di copiare...[fa una pausa]” a quel punto le chiedo “... come vive questo?” mi risponde “... come un occhio che entra in casa mia, sono ordinata ma prima di farlo entrare dovrò riordinare e poi.... non mi va ... mi da proprio fastidio...” le chiedo “cosa la infastidisce maggiormente?” prende una pausa poi risponde secca “... che entrino nella mia vita...”. Adriana anche se consapevolmente sa che è a scopo di garantire che i partecipanti non copino, vive male questa violazione della privacy, sembra, giustamente, che la viva come una sorta di violenza e stiamo parlando di una ragazza con un'ottima scolarizzazione, che arriva da una famiglia della media borghesia del nord Italia apparentemente senza disturbi psichiatrici. Che cosa può succede con ragazzi con minori capacità cognitive per elaborare il tutto, con qualche disturbo importante? Entriamo nelle case, che per l'uomo, inteso sia come essere animale sia come essere pensante, hanno un significato particolare, un luogo che ci protegge dalle intemperie esterne, anche in questa epidemia sono state la nostra salvezza, un luogo dove rifugiarsi dai pericoli esterni, dal contagio, e non ci interroghiamo sulle conseguenze di questo, che impatto ha. Lo trovo superficiale.
Un altro argomento su cui dobbiamo fermarci a riflettere, a mio avviso, è che quando rientreremo nei nostri studi avremo da gestire anche la trasformazione della concezione dello spazio: il termine di “giusta distanza” dovrà essere sostituito con “distanza di sicurezza”, la prima valutata caso per caso e quindi soggettiva, la seconda oggettiva e quantificata da un'autorità superiore, la Legge. Ma non è forse questa la rappresentazione del terzo, il padre? Sarà questo con cui ci si dovrà confrontare? com'è stato introdotto questo terzo? con rabbia, mentalizzato e accettato o imposto dall'alto? E' vero, il setting va co-costrito con il paziente, ma, in questa situazione, il setting ha delle restrizioni imposte, rigide che vanno rispettate per l'incolumità di entrambe, come verrà vissuto? Parafrasando Quinodoz(2005) “è solo nella cornice dell'analisi, che forse potremo analizzarlo e scoprirlo”. Penso che mai come ora lo scopo primario di noi terapeuti sia quello di mantenere viva e operante la funzione analitica della mente, essere sempre in dialogo con quello che capita, “di essere onesti rispetto a quanto le cose siano emotivamente difficili in questo momento” (Mc Williams, 2020), saperci interrogare e di rimanere anche nel dubbio, di riconoscere i nostri limiti e le nostre paure. Se in questo periodo siamo riusciti a fare questo, “forse non saremo quei Salvatori onnipotenti che conducono alla salute mentale ogni paziente” (Mc Willims, 2020) come abbiamo forse immaginato, ma di sicuro abbiamo offerto un ascolto prezioso.
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