Il caso di Simone. Di Serena Suraci
Il primo contatto con Simone è del tutto singolare: è il padre a telefonarmi e a chiedermi un colloquio, dicendosi preoccupato perchè il figlio “non esce di casa da mesi, non ha voglia di fare niente”. Quando apprendo l’età del ragazzo (21 anni), chiedo di essere contattata direttamente da lui: i primi dubbi sulla motivazione di Simone ad intraprendere un percorso di terapia fanno capolino nella mia mente. E’ nuovamente il padre a chiamarmi e a insistere per un appuntamento, dicendo che il figlio è d’accordo. Accetto, ma con una piccola riserva relativa alla telefonata col padre, motivo che mi spinge ad indagare da subito la volontà del ragazzo di incontrarmi.
Al primo colloquio, Simone si presenta come un ragazzo di bell’aspetto, alto, un po’ curvo nella postura, lo sguardo basso, un sorriso di imbarazzo; da subito ispira in me una certa tenerezza. Entra in studio in punta di piedi, si pone con estrema educazione e garbo, sembra quasi che abbia paura di disturbare. E’ forte in lui la tendenza all’autobiasimo: “sbagliato” è l’aggettivo che usa per descriversi; nomina questa parola talmente tante volte che mi sembra di sentirla rimbombare come un martellante ritornello. Il giudizio nelle nostre sedute è molto ingombrante e i miei tentativi di invitarlo a sospenderlo si rivelano quasi del tutto infruttuosi. Affronto con lui una riflessione - che tornerà spesso nelle nostre sedute - sul modo in cui il giudizio faccia da “tappo” alle emozioni, cercando di delimitare un confine tra dovere e volere; qualcosa mi spinge a pensare che buona parte del nostro lavoro avrà a che fare con questo senso di costrizione, col peso di un “giudice” severo e imperturbabile che talvolta aleggia come una presenza sinistra in studio.
Nel corso dei primi colloqui cerco di sondare a più riprese la reale motivazione ad un percorso di terapia, l’insistenza e l’apprensione del padre alla prima chiamata è una sensazione spiacevole che tengo a mente. Simone si dice convinto, è sempre puntuale, non salta una seduta, l’unica volta che è costretto a disdire per motivi di salute, mi chiede di recuperare nella stessa settimana.
Nei primi incontri, descrive il ritiro in casa da un anno e mezzo a questa parte, motiva questa difficoltà parlando della compagnia di amici nella quale era inserito: “hanno iniziato a parlarsi dietro gli uni con gli altri, lo facevano anche con me quando non c’ero...se dicevo la mia mi davano ragione, ma poi si comportavano nel modo opposto”; racconta di come, all’improvviso, si sia staccato da loro senza dare spiegazioni e di quanto poco interesse abbia ricevuto per questa decisione; si dice preoccupato all’idea di incontrarli nel piccolo paese in cui vive o nei locali che di solito frequentava con loro.
Nonostante gli studi presso la scuola alberghiera, non ama l’ambito della ristorazione e i pochi lavori che ha intrapreso come cameriere non lo hanno mai soddisfatto. Mi parla di una unica storia con una ragazza, sua coetanea, afferma di averla lasciata dopo due mesi, per la paura che lei si affezionasse troppo e soffrisse il momento del distacco. Da molti mesi, trascorre le giornate in casa, uscendo solo per portare fuori il cane, con la quale, ogni tanto, percorre i sentieri di montagna in totale solitudine.
Simone vive con la madre, separata da circa dieci anni dal padre. Ha due sorelle maggiori, ma entrambe vivono fuori casa. Da anni la sua vita è scandita dal pranzo a casa della nonna paterna, durante il quale incontra il padre e instaura violenti litigi verbali, soprattutto su dispute “d’attualità”: padre e figlio non sono mai d’accordo su chi siano “ i bravi o i cattivi”, “su chi abbia ragione o torto”, “la Polizia o i cittadini”, “lo Stato o i lavoratori”, “Lega o PD”. Inizio a chiedermi che valore abbia per Simone sottoporsi quotidianamente a questa “arena di combattimento”, pur mostrandosi contrariato all’idea di discutere costantemente col padre. Parlare dei suoi familiari si rivela difficoltoso. Mi racconta che la sorella mediana si è laureata in psicologia e convive in un’altra città con il compagno, mentre la maggiore si è trasferita a Milano. La madre presta servizio nelle case, mentre il padre ha un’impresa di pompe funebri. Spesso, per “ovviare” alla disoccupazione del figlio, il papà gli ha proposto di lavorare con lui, ma il ragazzo si è detto incapace di avere a che fare con le salme delle persone, sottolineando come questo lavoro abbia reso il padre “distaccato”. Non è facile per lui risalire al motivo del divorzio dei genitori e nei suoi racconti sono molto scarsi, se non quasi assenti, le coloriture emotive di persone o eventi per lui significativi.
Le emozioni sembrano per Simone un grande vuoto che lui cerca di riempire con esagerati sforzi di comprensione o ragionamento, del tutto fallimentari. Quando provo ad esplorare cosa ha provato o come si è sentito rispetto alle vicende che racconta la risposta è sempre la stessa: “Mi dispiace, non lo so, giuro che se lo sapessi glielo direi” oppure “non lo capisco”. Il ritorno emotivo di queste sue risposte è un grande senso di impotenza. Ben presto infatti, nel corso dei primi mesi, la piacevolezza e la simpatia che percepivo durante gli incontri con Simone, lasciano il passo ad un senso di vacuo e di smarrimento. L’immagine che ho di Simone è quella di un quaderno con molte pagine strappate, su cui sono annotati, sparsi qua e là nei pochi fogli rimasti, appunti di vita telegrafici, privi di emotività. Inizio a sentirmi incapace, spesso ho la sensazione di fare una brutta figura come psicologa, frustrazione e delusione mi portano spesso sul punto di agire, perchè, dico a me stessa, “non riesco più a capire, non riesco ad aiutarlo, devo fare qualcosa”. Simone stesso talvolta mi dice di non aver notato “grandi miglioramenti”, qualche discussione in meno col padre, ma ancora non trova una spiegazione al suo modo di comportarsi; tutto questo mi getta nello sconforto.
Noto che con lui tendo ad attivarmi in modo massiccio con suggerimenti, indicazioni, consigli - atteggiamento che mi stupisce perchè costituisce per me una sorta di tabù. Inizio a chiedermi e chiedergli quali siano le sue attitudini ed ambizioni, esplorare con lui le cose che vorrebbe e potrebbe fare. Iniziamo a parlare dell’idea di un trasferimento all’estero, da lui spesso sfiorata ma mai concretizzata, di un lavoro in rifugio o in ambito agricolo (la sua grande passione è la natura), parliamo di come inviare curriculum e di colloqui di lavoro. Mi interrogo più volte sul senso di questo mio modo di fare, ma di nuovo, è difficile individuarmi a livello controtransferale. Mi chiedo se per Simone sono una mamma, una sorella (la psicologa?), un’educatrice o un’agenzia di collocamento; mi chiedo anche se non sia finita a ricoprire i panni del padre, tanto preoccupato di trovargli “qualcosa da fare” e temo che questo possa incrinare la fiducia tra noi. Allo stesso tempo, vedo in lui una sorta di sollievo nel potersi immaginare altro da come è, sganciato dalle routine “tossiche” che sembrano imprigionarlo. Ho la sensazione che il suo serbatoio di fantasia sia come una vecchia tanica arrugginita, dimenticata tra le sterpaglie chissà dove, chissà perchè.
La confusione e lo smarrimento creano in me l’urgenza di portare il caso in supervisione; esprimere questi vissuti mi restituisce una visione più equilibrata e il coraggio per risuonare empaticamente con l’angoscia di Simone, con quel senso di vuoto e di impotenza che mi avevano travolto e stordito.
Inizio a vedere più chiaramente il mio senso di incapacità come la copia degli insulti e delle etichette che il padre di Simone è solito dargli: “sei un incapace, non vali niente, sei uno stupido”; così come il mio bisogno enorme di fare piuttosto che di sentire, sembra ricalcare lo stato mentale di Simone, quando alle mie domande su come si sentisse o provasse, rispondeva dicendo “non lo capisco”.
Focalizzarmi sulla necessità di empatizzare con il mondo emotivo di Simone, tanto carico, quanto difficile da sondare in profondità, ristruttura il mio modo di pensare con lui in termini analitici e sembra spalancare le porte ad un nuovo modo di essere all’interno della terapia.
A distanza di alcune settimane, la seduta si rivela per entrambi un piccolo, seppur importante passo in avanti. Il modo in cui Simone fa l’ingresso in studio attira la mia attenzione, lo vedo più a suo agio del solito, sembra meno preoccupato di disturbare. Toglie la giacca che di solito teneva sulle gambe e la pone sopra la mia sull’appendiabiti. Questo gesto attiva nella mia mente l’immagine della protezione e della fiducia. E’ un insieme di prime volte.
Simone mi racconta di un episodio avvenuto alle superiori: per nove mesi ha dovuto nascondere con un berretto un vistoso “buco” di alopecia, tra i capelli della nuca, a seguito della rottura con la fidanzata e della sospensione ricevuta per aver preso in giro un professore omosessuale. Dai discorsi sugli eventi della scuola, passiamo alla sua passione per la scrittura musicale e in particolare per il rap. Tentenno un attimo, ho il timore di tornare a fare con lui l’educatrice o peggio, l’amica, ma decido di lanciarmi e chiedo a Simone chi siano i suoi cantanti o testi preferiti (la musica è un aspetto importantissimo della mia vita a cui do molto significato). Mi parla di XXX Tentacion un cantante morto suicida molto giovane i cui testi lo affascinano anche se sono “superdepressi”, in particolare “Changes”. Mi racconta la passione per Mezzosangue, un rapper italiano che canta con il viso coperto da una maschera. Simone cita a memoria i passaggi di una delle sue canzoni preferite: “il tradimento fa male se a farlo sono le persone di cui ti fidi”. Nel sentire le sue parole percepisco nella mente e nella pancia un frizzare di sensazioni, vere e proprie capriole, come se qualcosa abbia ripreso a muoversi dopo tanto torpore. Parliamo del tema del tradimento, non posso fare a meno di pensare alla separazione dei suoi genitori e Simone mi dice che il dolore più grande del sentirsi traditi è la sensazione di essere dimenticato. Condivido con lui l’immagine che mi invade: lui bambino, dimenticato da qualcuno e, per la prima volta, parliamo della separazione dei suoi genitori, momento in cui può capitare che i bambini si sentano traditi, messi da parte, dimenticati. Simone “spiega” l’accaduto dicendo che “è meglio per i bambini che i genitori si separino, piuttosto che continuare a fare la guerra”, ma nelle sue parole c’è qualcosa che non mi convince: sembrano parole preconfezionate, troppo adulte, è un ragionamento che stento ad attribuire ad un ragazzino di 12 anni. Esprimere questa sensazione sembra permettergli di dire quanto in realtà abbia sofferto e quanto abbia sperato che i suoi rimanessero insieme.
Per la prima volta ho l’impressione che quel “tappo” che teneva sigillati i sentimenti si sia allentato, Simone inizia ad associare liberamente, trasportato dalle frasi delle sue canzoni preferite. Mi interrompe (un’altra prima volta!) e mi dice che gli è venuta in mente la sua canzone preferita di Mezzosangue, dal titolo “Fuck them, fuck rap”; tra le frasi ne riporta una: “l’intelligenza non è adattamento se intelligenza è fare scempio di sé”. Rimango colpita, provo ad ascoltare le parole di Simone aldilà delle parole, cosa mi sta dicendo veramente? Rievoco con la mente la sua grande difficoltà nel sentirsi e il modo in cui comprensione e ragione abbiano fatto da sigillo al mondo delle emozioni. Mi chiedo se le canzoni ci stiano dando una chiave per rompere quel sigillo e andare a fondo. Al termine della seduta sono inebriata, mi sento traboccante di suggestioni, fantasie, materiale sul quale lavorare insieme. Ma è come se sentissi che manca un pezzo. Saluto Simone e approfitto di un appuntamento disdetto per accedere a Youtube. Sono combattuta, non so se sto facendo la cosa giusta, ma lo sento come un bisogno viscerale. Digito il nome del cantante e ascolto per intero il testo della canzone. E’ una canzone lunga, un testo denso, che non lascia nulla all’immaginazione. La voce roca, stridula del rapper mi tiene inchiodata alla sedia, gli occhi sbarrati. Una frase su tutte mi arriva come un pugno allo stomaco: “è la merda che ho visto che non scordo e me la porto appresso”; rimango immobile, in uno stato trasognante nel quale rivedo in ordine sparso una giostra di persone ed eventi che nei racconti di Simone sembravano presentarsi come apparentemente innocui. Inizio a immaginare Simone e una rabbia di cui non si è mai potuto parlare che mi arriva con una violenza tale da lasciarmi senza fiato.
Nella seduta successiva decido di condividere con lui queste sensazioni; Simone appare imbarazzato, ma nel suo sguardo che sembra quello di un bambino, si legge uno stupore nuovo. Provo il disperato bisogno di comunicargli che questa rabbia è lecita, mi chiedo quanto poco si senta autorizzato a provarla e quanto sia difficile per lui dargli un nome. Riflettiamo su cosa sia quel “qualcosa che non scorda” e su cosa lascia in lui questo sentimento così feroce. Per la prima volta Simone nomina l’ansia. Sono stupita quanto lui del modo in cui le emozioni sembrano scorrere in entrambi i sensi. L’ansia che lo attanaglia ha l’aspetto di un “nemico invisibile” onnipresente. E’ ansia di uscire di casa e incontrare persone conosciute che lo possano giudicare come un teppista, ansia di entrare nei bar, ansia che un rumore nel cuore della notte sia un plotone armato di kalashnikov pronto a compiere una strage, ansia che a qualcuno dei suoi cari possa succedere un incidente mortale, su tutti, suo padre che quotidianamente si reca al lavoro in scooter.
Purtroppo le nostre sessioni si interrompono a inizio marzo con l’avvento del Covid-19. Non senza un certo disappunto, ricevo da Simone il rifiuto a proseguire le sedute in forma telematica. Mentalmente annoto questa mia delusione, pur non essendo in grado di darle un significato e con il dubbio che il dispiacere abbia a che fare più con me che con lui. Decido comunque di mantenere uno sporadico contatto per sapere di tanto in tanto come sta. Fin da subito mi comunica che lo stato d’ansia, soprattutto nei confronti del padre, che lavora con i defunti a causa del virus, si è intensificato ed è il motivo che lo trattiene dal proseguire le sedute.
Rivedo Simone all’inizio di maggio e nelle prime due sedute parliamo soprattutto dello stato di tensione durante il lockdown, la paura che la mamma facesse volontariato in un’associazione benefica che portava la spesa a casa, l’ansia per la nonna che voleva uscire nonostante i divieti, il padre costantemente a contatto con i contagiati e i morti. Aggiunge una sfumatura positiva nel suo racconto: l’obbligo di stare a casa ha incrinato quella fastidiosa routine familiare dei pranzi in famiglia e delle litigate con il padre.
Trascorse queste prime due sedute, decido di mettere di nuovo a fuoco i nostri obiettivi; spontaneamente Simone sembra riprendere il discorso da dove lo avevamo lasciato prima di salutarci due mesi prima. Riaffiora con maggiore vividezza l’ansia nei confronti del mondo esterno. Torna con insistenza l’immagine di un nemico senza volto e senza nome che lo perseguita costantemente e nei confronti del quale è costretto a proteggersi isolandosi, chiudendosi in casa. Le sue riflessioni tornano a cortocircuitare sul forte senso di colpa nei confronti delle persone care, sul dirsi “sbagliato” perchè non riesce a capire come uscire dal suo isolamento e, di nuovo, lo ascolto con il presentimento che manchi qualcosa, un pezzo fondamentale per completare questo puzzle. Parlare di quel timido sentimento di piacere nel poter “infrangere” la routine familiare dei pranzi dalla nonna, mi dà l’occasione per chiedere a Simone il suo rapporto con la rabbia, forse è di nuovo questo il tassello mancante. Lo vedo annaspare, “non credo di essere arrabbiato con i miei familiari, non lo so”, sono tentata di ricordargli che “siamo soli e nessuno ci sente” come se una fastidiosa presenza aleggiasse in stanza; proviamo a ripercorrere a ritroso la “storia” di questa emozione, ma non è capace di immaginarsi un momento suo di rabbia, nemmeno da bambino si ricorda di lui arrabbiato, racconta che gli altri bambini si picchiavano ma lui stava a guardare. Fa una libera associazione, ricorda di un suo amico che pochi mesi fa ha accoltellato una persona per averlo provocato e fatto “uscire di testa”. L’associazione tra rabbia e violenza, distruttività, follia mi colpisce; mostro a Simone questa curiosità e mi dice di sentirsi all’estremo opposto dell’amico, come se lui potesse gestire la sua rabbia solo inibendola del tutto, isolandosi. Inizio a domandarmi cosa ne abbia fatto Simone di quella rabbia, se non sia stato in qualche modo costretto a difendersi da essa, isolandola e proiettandola all’esterno, “sotterrandola” in buche profonde che rendono difficile l’accesso ai ricordi. Restituisco a Simone questa idea e insieme formuliamo un’immagine: un campo minato che lo circonda. Il mondo in cui sembra vivere Simone assomiglia molto a un terreno disseminato di ordigni carichi di rabbia pronti a brillare e distruggere con violenza ciò che hanno intorno. Sorridiamo perchè Simone mi racconta che il lavoro del nonno defunto era proprio l’artificiere. Mi servo di questa metafora per chiedergli cosa ne pensa di disinnescare questi ordigni di rabbia e trovare un modo per bonificarli e poterli fare propri, tollerarli, senza temere di uccidere simbolicamente o fisicamente le persone a lui care. Ho la sensazione che nella vita di Simone sia venuta a mancare la capacità di validare le emozioni; mi chiedo se l’unica difesa plausibile sia stata allontanare da sè queste “isole di rabbia” perchè intollerate e intollerabili, ed oggi percepite come minacciose.
Riprendiamo insieme un sogno che Simone portò in una delle prime sedute: “è con un amico e stanno sondando con il metal detector una buca alla ricerca di oggetti metallici; ad un tratto un volto indefinito ma inquietante appare e scappano spaventati”. Inizio a sentire che quella “bomba di rabbia” è stata anche per me un ostacolo nel lavoro con Simone e mi chiedo se quell’amico che è scappato con lui possa essere io nel momento in cui ho ceduto e mi sono angosciata di fronte a quel vuoto pieno di rabbia.
Conclude la seduta raccontandomi di un film di guerra visto pochi giorni prima in cui dei bambini venivano mandati nei campi minati a disinnescare le mine. In effetti è proprio così che immagino Simone, un bambino, incerto e spaventato dalla sua stessa rabbia, ma soprattutto solo, senza nessuno che gli abbia mai mostrato che la rabbia si può accogliere e si può gestire senza essere trasformata in un’arma.
Riflessioni teoriche sul caso
I contributi teorici che ho trovato maggiormente utili nella stesura e nella rielaborazione del caso di Simone riguardano soprattutto i concetti di Ogden relativi all’uso dell’identificazione proiettiva a scopo comunicativo e alla necessità di “sognare con il paziente sogni non sognati”. La rilettura del concetto di identificazione proiettiva kleiniana elaborata di Bion e ripresa da Ogden mette in luce il processo per cui il terapeuta, così come la madre, fa proprie le esperienze emotive intollerabili del paziente/bambino, gli aspetti dell’esperienza che non possono essere sognati, cioè su cui non sembra possibile compiere un lavoro inconscio e li restituisce al bambino/paziente pensati e quindi pensabili. Le forti angosce che ho vissuto spesso in seduta con Simone sono state per me fonte di iniziale disorientamento e scoraggiamento tanto da inibire il processo di “reverie” terapeutica, infondendomi un misto di impotenza, bisogno di fare piuttosto che di “essere con” la sua sofferenza. Solo interrogando questi vissuti, accogliendoli e dotandoli di significato mi è stato possibile impiegarli nella nostra relazione in modo positivo, cercando di restituirli a Simone in forma più tollerabile, affinché lui potesse “sognarli”, accedervi come a parti del Sé fino ad allora poco frequentate.
Un contributo teorico che integra il precedente riguarda la concezione di Bromberg per cui nell’organizzazione psichica vi possano essere parti del sé vissute come un “pericolo” in quanto “disconfermate in modo traumatico nella relazione con gli altri significativi” e quindi dissociate, inaccessibili al paziente. Nel caso di Simone, a più riprese ho avuto l’impressione che per lui fosse quasi impossibile entrare in contatto con la parte di Sé “odiante”, quella arrabbiata, distruttiva in senso simbolico e fisico. La sensazione che nelle narrazioni e nei vissuti di Simone ci siano “ombre” di un “passato traumatico”, la cosiddetta “ombra dello tsunami” è spesso attiva. Lo stato di ansia e allerta che il ragazzo descrive rispetto a minacce incombenti e apparentemente immotivate (percezione che mi rimanda) mi portano a pensare alla sua mente come strutturata per “vigilare costantemente l’ombra”. La sensazione di stallo terapeutico che si era creata nel nostro primo periodo di lavoro mi rimanda proprio a quella che De Bei e Lingiardi definiscono “una inutile lotta per pensare”, in cui il focus della mia ricerca era più spostato sul conoscere la “verità” del paziente, piuttosto che nello stare con lui nel qui ed ora della relazione.
Un sentimento che spesso satura e pervade la seduta da parte di Simone è la vergogna per ciò che ha fatto o fa, la quale sembra rimandare più propriamente a vergogna per “ciò che si è” (Lynd in Bromberg).
Riprendendo inoltre la concezione del trauma illustrata da Bassi nei seminari teorici presso il Ruolo Terapeutico, la storia di Simone sembra poter essere ascritta nel percorso che dal trauma relazionale costituito dal mancato riconoscimento degli stati emotivi del bambino procede per un rivolgimento contro il Sé da cui scaturiscono senso di inadeguatezza, colpa, vergogna, insicurezza, costantemente evocati da Simone; da tali affetti disturbanti e intollerabili la mente si isola all’interno del cosiddetto “bunker emotivo” che difende la personalità fragile e massacrata della persona ad un prezzo altissimo, l’ansia e il terrore della relazione. Il “bunker” di Simone sembra rappresentato da questa difficoltà nel richiamare situazioni e relazioni connotati in senso affettivo.
Questioni aperte
Ritengo che nel lavoro con Simone molti siano gli aspetti da elaborare e vi siano ancora, da parte anche mia, delle macchie cieche che meritano una esplorazione più approfondita, potendo contare sul consolidarsi sempre maggiore di un’autentica alleanza terapeutica.
Nell’atteggiamento di Simone percepisco una costante nota di compiacenza e di aderenza alla terapia che ad oggi non sono ancora riuscita a evidenziare con lui; è un aspetto non trascurabile che tengo a mente soprattutto in relazione al “mandante” di questa terapia che è il padre di Simone, anch’egli un’ombra che aleggia spesso in studio e merita uno sguardo approfondito.
Vi sono alcune figure significative della vita di Simone che stentano a venire fuori con una dettagliata caratterizzazione, come se fossero sfocate e prive di colori (mi riferisco in particolare alla madre e alle sorelle).
La percezione di poter contare sull’uso “relazionale e comunicativo” dei vissuti controtransferali e delle proiezioni identificative che talvolta travolgono come un’onda la mia mente (lo tsunami, appunto) ha mitigato in parte il senso di impotenza e mi ha restituito la consapevolezza che quel “vuoto emotivo” apparente è in realtà uno dei punti nodali di Simone; poter riappropriarsi delle sue emozioni, delle parti del sé dissociate, poterle “sognare”, sondare cioè quel “campo minato” e abbassare il grado di vigilanza e il senso di minaccia è tra gli obiettivi che mi guidano nel lavoro con lui. Essere per Simone un terapeuta/genitore capace di “sognare per lui” prima e “con lui” poi, restituendogli la sensazione di continuità e non un “terrore senza nome” presuppone una rinascita ed una crescita emotiva condivisa, non solo di Simone, ma anche mia.
Ancora, abbattere il muro della colpa e della vergogna, potrebbe farlo sentire sufficientemente in grado di ristabilire un contatto e una conciliazione tra gli aspetti di Sè invalidati e percepiti come distonici.
Confesso che aver ripensato, rielaborato e messo nero su bianco il percorso fatto con Simone è stata per me una autorizzazione ulteriore nel lavoro sugli aspetti della relazione, più che sui contenuti, la spinta per aumentare la mia disponibilità ad accogliere quei vissuti che le parole di Simone non sembrano capaci di esprimere, ma che sanno trovare nel controtrasfert, nelle canzoni, nelle immagini e nelle metafore una via d’accesso che talvolta ho sbarrato.
Bibliografia
• L’arte della psicoanalisi, Sognare sogni non sognati - Thomas H. Ogden
• Vite non vissute, Esperienze in psicoanalisi - Thomas H. Ogden
• L’ombra dello tsunami, La crescita della mente relazionale - Philip M. Bromberg
• Appunti del Seminario sul trauma Prof. Bassi