Il profumo. Essenza, assenza e perversione*.
Luca Trabucco
“I neonati cercano sempre il seno affidandosi al loro odorato”, afferma Joyce McDougall, e continua dicendo che una sua paziente “sembrava voler annusare, gustare e, quindi, mangiare il sesso della madre, come mezzo primitivo di diventare lei, e di entrare in possesso del suo organo sessuale, nonché dei suoi privilegi e dei contenuti corporei immaginati come presenti in lei” (1995, pp. 147-149). Esther Bick fa osservare come “il bisogno di un oggetto contenente, nello stato di non integra- zione in cui si trova inizialmente il bambino, sembra spingere alla frene- tica ricerca di un oggetto – una luce, una voce, un odore, o un altro oggetto sensibile – capace di attirare l’attenzione e di essere quindi sperimen- tato, almeno momentaneamente, come qualcosa che tiene insieme le componenti della personalità.
L’oggetto ottimale è costituito dal capez- zolo in bocca, insieme con la percezione dell’essere tenuto tra le braccia della madre, della sua voce e del suo odore ormai familiare” (1968, p. 91, corsivo mio). Tutto questo potrebbe essere definito come il precursore o equivalente fisico della funzione mentale di conteni- mento e rêverie materna, in termini bioniani.
Questi desideri cannibalici e di identificazione incorporativa, di cui parla la Klein come presenti nella fase di “massimo sadismo”, sono universali, ma, afferma ancora la Mc Dougall, “la persistenza di questi desi- deri primitivi nella vita adulta... indicherebbe una rottura precoce nei processi di internalizzazione e di simbolizzazione” (p. 149).
Grenouille, il protagonista del romanzo di Süskind Il profumo, nasce da una madre – al di fuori di un rapporto con un padre – che lo considera morto dal momento della nascita, lo equipara a feci, lo mette alla luce nel luogo più puzzolente del mondo, e per questo delitto viene decapitata. Una madre che “non ha testa” per lui, che si sottrae immediatamente al suo contatto e di cui, quindi, egli non può percepire l’odore. Non po- tendo percepire l’odore della madre egli stesso non può acquisire il pro- prio odore individuale, non può individuarsi grazie alla creazione di un oggetto interno primario. Infatti Grenouille è un bambino che non può essere amato perché non ha odore. Da qui inizierà la storia della sua vita, quella di ritrovare l’odore perduto, a ogni costo, in una “frenetica ri- cerca” – per usare l’espressione della Bick – in una dimensione che non può che essere perversa e carica di distruttività. Naturalmente il bisogno di ritrovare l’odore mai sentito sviluppa al massimo grado il senso, dive- nendo Grenouille così l’uomo sovranaturalmente dotato di olfatto.
Un ragazzo omosessuale, A., vive da anni una convivenza con un uomo, ma non è assolutamente convinto della sua scelta sessuale. Inizia la sua analisi, e si configura nel tempo una relazione familiare segnata da una profonda deprivazione sia nei confronti della madre che del padre. A. è il terzo di tre fratelli, maggiori di lui di dieci e otto anni. I ge- nitori sembrano una coppia quanto mai disturbata: la madre, infer- miera, viene descritta come molto instabile, invischiata in difficilissimi rapporti con la famiglia di origine – figlia illegittima, con conflitti con i fratelli e la madre – e il padre, trovatello, navigante, assente dalla vita di A. anche quando era fisicamente presente. La relazione tra i genitori sembra essere praticamente inesistente. La sua infanzia è denotata da un senso di assoluta solitudine: solo nei confronti dei genitori così come dei fratelli, troppo più grandi per realizzare con lui una qualche complicità.
In passato ha avuto un lungo rapporto con una donna, molto proble- matico per molti aspetti. Aveva infatti tutte le caratteristiche di una rela- zione incestuale: questa donna aveva dodici anni più di lui, e la rela- zione era iniziata quando A. aveva tredici anni. Dopo la rottura del le- game con questa donna, dà libero corso alle proprie tendenze omoses- suali, pur ritrovandosi a considerare l’ambiente gay come assolutamente insoddisfacente e “folle”. La sua visione del mondo gay è quella di una rete in cui il motore nascosto e innominabile è la disperazione, l’ansia affannosa di un rapporto che non esisterà mai, un’eccitazione crescente fino allo spasimo per coprire un vuoto di dimensioni inimmaginabili.
In questo senso la sua descrizione mi ricorda molto ciò che Petrella (1992) ha definito in modo molto pregnante con l’immagine del calei- doscopio, che “funziona... come un sistema chiuso, che opera nella scis- sione, riunificazione, riflessione delle sue parti ed è esclusivamente fi- nalizzato a costituire un’alternativa al reale”, e che può rappresentare “un discreto modello metapsicologico di un sistema mentale chiuso, ri- volto al controllo di angosce catastrofiche relative alle relazioni ogget- tuali” (p. 919). Anche Bollas (1992) mi viene rammentato dalle descri- zioni di A.: l’“Arena omosessuale”, in cui si cambia “amante ogni notte, persone che... si trasformano da meravigliosi oggetti in attesa in scono- sciuti consumati che scompaiono subito dopo l’orgasmo” (p. 140).Ricostruisco pian piano l’atmosfera e la casa in cui A. è cresciuto. Una casa caotica, con gli interruttori posti molto in alto, è la prima im- magine che riesco a individuare. Solo, al buio, A., piccolo bambino, cerca di raggiungere la stanza dove la madre, con i due fratelli più grandi, guarda la televisione. Deve uscire dalla camera dove dorme e passare per un lungo corridoio e cerca, nel terrore del buio, di accen- dere le luci: ma nemmeno saltando arriva agli interruttori.
Ho anche in mente una casa un po’ sporca. Le sere in cui la madre è di turno, e il padre in navigazione, i tre fratelli si organizzano le cene da loro stessi. Latte nel fuoco, toast che saltano fuori dal tostapane e fi- niscono per terra, intrugli strani che servono per cena, cose poco nu- trienti. Ancora adesso A. è magrissimo.
Il padre è imbarcato. Un armadio chiuso a chiave, la cui chiave egli si è portato via con sé, racchiude tutte le sue cose. Se lui fisicamente non c’è, nemmeno gli oggetti testimoniano la sua esistenza. La “grande con- fidenza” con la madre sembra andare a corrente alterna. Momenti di presenza assente molto consistenti, oltre alla reale assenza:
“...una volta, avrò avuto otto anni, giocando a pallone nella piazzetta, ho tirato il pallone in un giardino di un appartamento che era sempre chiuso. Si scaval- cava e c’era una cancellata, e quella volta, non so come, sono scivolato e mi sono infilzato una coscia con uno spuntone. Sanguinavo molto, mi sono spa- ventato e sono corso a citofonare alla mamma di un mio amico. Lei mi ha detto di andare da mia mamma. Allora io ho suonato. Era molto seccata. Non so se stava dormendo perché aveva fatto la notte. O forse c’era mio padre e lei voleva stare con lui. Mi ha detto che senz’altro non era niente e di andare al Pronto Soccorso, che era lì vicino. Ci sono andato e mi hanno medicato, ma mi hanno detto di farmi portare al Gaslini. Sono tornato da mia madre, che a quel punto era tutta truccata, si era pettinata e vestita, e dato che guidava mi ha portato al Gaslini. Mi hanno fatto l’antitetanica, e lei era agitatissima, gridava, era in ansia per me... Mi scusi, ma non si può dire non è senz’altro niente, e poi agitarsi così, e annegare in un bicchiere d’acqua. Mia madre è sempre stata una ba- starda, ha detto che lei ci ha lasciato sempre liberi di fare la nostra vita...”.
Questa distanza incolmabile non è tollerabile. A. ricorre a diversi espe- dienti per ovviare a questo aspetto della propria realtà, che torna a ri- petersi dopo che nel primo anno e mezzo di vita è stato affidato a una dirimpettaia, che lo ha allevato in un clima che mi sembra di poter ri- costruire come molto freddo. Nella relazione analitica, infatti, è ricor- rente l’immagine di me che mi prendo cura di lui perché devo, per soldi, o per interesse “scientifico”, ma senza interesse affettivo. Allora ecco apparire l’immagine di un bambino che si introduce di soppiatto nella camera della madre, quando questa dorme dopo, o prima, i turni di notte, e cerca di appropriarsi di lei senza disturbarla, senza che lei se ne accorga, inalando l’odore dei suoi piedi.
“...gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’or- rore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti alle melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Perché il profumo era fra- tello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resi- stere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore...” (Süskind, 1985, p. 160).
Osserva Rosenfeld (1949), e successivamente De Martis (1986), che la situazione omosessuale rappresenta una difesa da una sottostante situa- zione psicotica persecutoria, attraverso l’idealizzazione della figura pa- terna, e come questa difesa a sua volta, ricorda De Martis, “non rappre- senti che la trasposizione a un livello più maturo di impulsi originaria- mente diretti verso la madre attraverso l’identificazione proiettiva in cui il bisogno originario non era quello di una penetrazione fallica, ma di una compenetrazione... potremmo dire fusionale, col corpo ma- terno” (1986, p. 10). Come quando durante le giornate in cui riusciva a stare vicino alla mamma giocava a fare la donna di casa, le faccende. Una scopetta col manico corto era uno dei suoi giochi preferiti. Era proprio uguale a lei, quindi la possedeva.
Il profumo fratello del respiro, dice Süskind. Il bisogno di sentirsi dentro un oggetto buono che sostiene nel proprio percorso è come sentire l’aria che entra nei polmoni, che ossigena. L’oggetto interno buono è per la mente come l’ossigeno per il sangue. Il profumo del seno, riprendendo la McDougall, rappresenta qualcosa di cui ine- briarsi, per poterlo conservare definitivamente dentro di sé. C’è pro- prio bisogno di una mamma che si lasci, almeno una volta, divorare.
Credo che sia esperienza comune la vivacità di certe memorie olfat- tive, che riportano con un’immediatezza sorprendente a tempi e luoghi lontani. Personalmente, per esempio, quasi tutte le estati, quando mi siedo su un prato di montagna, sento il profumo di un’erba, credo che sia il timo di montagna, che mi riporta in un attimo alle estati della mia infanzia, ai picnic con la mia famiglia, tutta unita, tanti anni fa. Ma sembra proprio di essere di nuovo tutti lì, con quel pro- fumo. Tuttavia non ho bisogno di portarmi dietro una boccetta di pro- fumo al timo per sentirmi ristorato in ogni momento delle mie gior- nate. Credo che qui si apra la differenza fra la memoria, anche olfattiva, che rappresenta una funzione simbolica, e una pseudomemoria che si configura come ricerca affannosa di qualcosa che è mancato, o è stato carente, e che ha generato un disturbo della simbolizzazione, cioè del pensiero. Una situazione in cui la mancanza di realizzazione della pre- concezione, invece di generare pensiero, configura lo spazio della non- cosa, presenza persecutoria dell’assenza (vedi Bion, 1962).
Proust può essere citato in un suo celeberrimo passo per definire la memoria come forma simbolica:
“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più im- materiali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edi- ficio del ricordo” (Dalla parte di Swann, 1913, p. 58).
Ma se questo atto primariamente cannibalico, questo primo respiro della vita deve essere compiuto di soppiatto, come per il mio paziente, o non può essere compiuto per nulla, come nel caso di Grenouille? Proust, ancora, scrive:
“...ma a mandarmi in estasi erano gli asparagi, intinti nel rosa e nell’oltremare e la cui punta, finemente spruzzata di malva e d’azzurro, sfuma insensibil- mente fino al gambo... con iridescenze che non appartengono alla terra. Mi sembrava che quelle sfumature celesti rivelassero le deliziose creature che si erano divertite a metamorfosarsi in legumi e che attraverso il travestimento della loro carne salda e commestibile lasciavano scorgere in quei colori teneri d’aurora, in quegli accenni d’arcobaleno, in quello spegnersi di sere azzurre, l’essenza preziosa che io potevo ancora riconoscere quando, dopo che ne avevo mangiato a pranzo, giocavano per tutta la notte lo scherzo, poetico e grossolano come una fantasmagoria di Shakespeare, di trasformare il mio vaso da notte in una profumiera” (1913, p. 148).
Queste tinte meravigliose rimandano all’essenza della deliziosa creatura che si vuole trattenere. Essenza è così poco diverso da assenza. E per trat- tenerla, per negare l’assenza, anche la confusione perversa sembra es- sere ammessa. L’elemento che trattiene questa essenza proustiana è orina, il profumo perduto di Grenouille deve essere distillato da una serie impressionante di cadaveri di splendide fanciulle. L’essenza della madre di A. è nella puzza dei suoi piedi. L’assenza non può che susci- tare rabbia, odio, rivendicazione, attacchi sadici, svalutazione, depressione e senso di morte. Ma attraverso la “soluzione” perversa tutto questo viene misconosciuto, tutto è soffuso di quest’aura poetica, este- tizzante e melliflua, oppure erotizzata. Tuttavia questi sentimenti sono espressi nel carattere, non riconosciuto, degli elementi che sono con- nessi a questi profumi. L’oggetto perverso è un oggetto in cui non si è operata una distinzione fra bene e male, dove il male è travestito da bene. “Guardando meglio si possono individuare molti elementi buoni nell’organizzazione narcisistica... e, più importante, gli elementi per- versi si trovano nel sé bisognoso e dipendente... Il conglomerato pato- logico che sto descrivendo è allora qualcosa di più di una divisione arti- ficiale, come nel caso di un salame affettato con un coltello. Le parti buone e cattive del sé, come i pezzi di carne e di grasso nel salame, si possono trovare da ambo le parti, e restano appiccicate l’una all’altra. Il collante che tiene insieme gli elementi di un’organizzazione patologica è la perversione...” (Steiner, 1993, p. 146).
Pian piano A. riesce a rivelarmi che dal punto di vista sessuale ciò che lo eccita maggiormente non è tanto il rapporto, quanto il potersi guar- dare allo specchio mentre pratica la masturbazione anale. Questa pratica è iniziata molto presto, intorno ai sette anni, quando per la prima volta si è penetrato analmente con un tubetto di Vicks Vaporub. Ancora una volta ci sono inalazioni, confusioni, buone cure “materne” che vanno a fi- nire nel posto più sbagliato. Profumi che si confondono con puzze e puzze che si confondono con profumi. Cure materne trasformate in nar- cisistico senso di onnipotenza, distruzione mascherata da piacere erotico.
Nella finzione letteraria Süskind ha creato un personaggio a cui viene a mancare l’insufflazione dell’alito vitale, del profumo primario del seno. A cui, quindi, non è stata offerta la possibilità di costituirsi un mondo interno. In questo suo essere a metà tra la vita e la morte, essere vivo senza la vita dentro, sembra riproporre la figura del vampiro, che deve suggere la linfa vitale da altri. Infatti egli deve uccidere tutte le fan- ciulle per poterne trarre l’essenza profumata, che, una volta che ha im- parato a distillare e poterla conservare, potrà dargli l’illusione della vita, l’illusione dell’amore, di essere amato, e quindi di avere acquisito un’i- dentità. Ma è un amore che non è disgiungibile dall’odio, dalla più radi- cale distruttività: l’“atto” d’amore che conclude la vicenda viene infatti rappresentato da un banchetto di un gruppo di disperati che divora fino all’ultimo brandello il corpo, artificialmente profumato, di Grenouille. Si conclude così la vicenda, dal punto in cui avrebbe dovuto, simbolica- mente, partire. È stata proprio questa mancanza simbolica originaria, il poter “divorare” la madre, a determinare il bisogno continuo di agire fino alla situazione in cui egli cerca di realizzare, attraverso un agito rovesciamento di ruoli, quello di cui lui avrebbe avuto bisogno: qualcuno che si offre in pasto a un disperato, a chi ha disperatamente bisogno.
Non si può avere memoria di ciò che non si è sperimentato, per cui se manca una strutturazione interna entro cui distinguere e mantenere le esperienze è solo l’atto ripetuto che può dare l’illusione di possedere l’oggetto e la pseudosicurezza di poterlo ri-possedere, cioè come se fosse conservato. Penso che l’aspetto compulsivo che si può ritrovare al fondo di molti comportamenti perversi abbia a che fare con questa ca- renza di simbolizzazione primaria, per cui l’oggetto non può essere conservato, e non può essere distinto.
In un passo tratto da Dedalus, James Joyce esprime sinteticamente una situazione emotiva molto complessa:
“Era stato vile da parte di Wells farlo cadere nella fossa quadra perché lui non voleva scambiare la sua piccola tabacchiera con la castagna secca di Wells, vinci- trice di quaranta partite. Come era stata fredda e motosa quell’acqua! Un suo compagno aveva veduto una volta saltare nella schiuma un grosso topo. La mamma stava seduta al fuoco insieme a Dante, aspettando che Brigid portasse il tè. Teneva i piedi sul parafuoco e le sue pantofole ingioiellate erano così calde e avevano un così buon profumo tiepido!” (p. 29).
Aberbach (1983) osserva, a proposito di questo passo: “The strange jux- taposition of the ditch – the cesspool for the school urinal – and the mother evokes Stephen’s longing to escape the cold, hostile, disgusting world of school to the warmth of home. At the same time, this juxtaposi- tion suggests a connexion in Stephen’s mind between the ditch and the mother – that the slime and the coldness are, in some sense, hers”(1) (pp. 52-53). Oltre che sentire la melma e la freddezza come pertinenti alla madre, egli della madre sente anche il calore e il valore. Ma vi è una traccia di ambiguità, un’insufficienza e innaturalità della scissione, come rimarcava Steiner, che mi sembra si possa rintracciare nell’identificare il calore e “il buon profumo tiepido” nelle “pantofole ingioiellate”, che tanto mi ricorda il mio paziente. È la madre che ha allontanato da sé Stephen inviandolo nell’ostile, persecutorio universo del collegio gesui- tico, che si è sottratta, forse, al suo primario bisogno di divorarla. Egli quindi si è sentito rigettato dal caldo ambiente materno in una fossa piena di escrementi, gelata. Si è sentito pieno di sentimenti ostili e ven- dicativi che non può riconoscere come originariamente propri, ma dentro i quali si è sentito gettare dal rifiuto materno, e dalla funzione se- parante del padre. Deve ritrovare e, forse, ricreare dentro di sé l’oggetto materno buono attraverso un’“identificazione respiratoria”, direbbe Fe- nichel (1945, p. 362), un’azione in qualche modo furtiva. Stephen – Joyce – non diviene un perverso manifestamente patologico: la funzione della scissione è abbastanza integra da salvare l’oggetto buono, ne man- tiene in ogni caso una traccia operativa entro il proprio mondo interno.
La McDougall parla della creazione di “neosessualità” per il bisogno di costruirsi un sé nei soggetti che provano questo senso di mancanza di vitalità umana e di identità profonda. A me sembra che questi aspetti “neosessuali” siano espressione di una caratteristica tossicomanica delle strutture perverse, per cui la fondamentale mancanza di appagamento che il perverso sperimenta comporta il bisogno di “incrementare la dose”, come espressione di questa mancanza primaria di memoria di un buon oggetto.
“L’individuo perverso prova un sentimento di morte interiore, la sen- sazione di non essere vivo come essere umano” (Ogden, 1996, p. 56). Al- lora penso a questa sensazione in relazione a questa “madre che non ha testa” di Grenouille, o alla madre di Joyce e a quella del mio paziente, che totalmente decapitate non sono. Sono madri sole, per qualche mo- tivo. “...immagino che la mancanza di vita nella scena primaria sia la causa del proprio sentimento di morte interiore. Questa fantasia del pa- ziente si basa in parte sul suo attacco invidioso al rapporto tra i genitori. Ma riflette anche la sua esperienza (una combinazione di percezione e fantasia) del vuoto che c’è nel legame tra i genitori... il paziente tenta (invano) di infondervi una pseudoeccitazione da cui cerca di estrarre vita... poiché il rapporto tra i genitori da cui il paziente perverso tenta di estrarre vita è percepito come morto, egli cerca di estrarre vita dalla morte, verità dalla falsità” (Ogden, 1996, pp. 57-58). Grenouille, infatti, cercava di distillare l’amore e la vita dai cadaveri delle sue vittime.
B. è un paziente di circa quarant’anni in una fase avanzata della sua analisi. Si è da poco separato dalla moglie, rompendo un legame per- verso, e ha bisogno di usufruire della casa della madre, dove peraltro lei non abita. Tuttavia ella non gli permette di avere veramente uno spazio suo, e quindi è qualche tempo che medita di trovarsi una casa per sé.
B. ha avuto una sorella, minore, morta per overdose di cocaina, qualche anno addietro. La madre, così come il padre, ha sempre chiuso gli occhi di fronte ai problemi di B., così come a quelli, ancor più vistosi, della sorella. Così come nessuno dei due genitori era mai riuscito ad affrontare il problema di un rapporto tra loro assolutamente vuoto, mantenuto solo per l’apparenza sociale, e forse minato dal lutto per il loro terzo figlio, morto quando aveva pochi mesi. B. è un affer- mato professionista, tuttavia la sua struttura di personalità è dipendente da una forma di masturbazione coatta che non lo ha mai abbandonato durante tutti questi anni, nonostante il lavoro analitico, e nonostante questo gli abbia permesso di avere notevoli miglioramenti generali nella sua vita. Mi porta un sogno:
“Sono nel salone della casa dei miei [il padre è morto dieci anni fa]. C’è mia madre e anche la donna di servizio. Arriva un professore. Mia madre dice che è un professore di scuola, suo amico. Questo professore ha un pacchetto, lo apre e vedo che contiene come dei cubetti bianchi, come zollette di zucchero. Questi cubetti si disfano e capisco che si tratta di cocaina. Allora mi arrabbio e dico a questo professore che è uno spacciatore, che chiamerò i carabinieri. Questi si difende dicendo che c’è qualcuno che lo vuole incastrare, che vuole farlo passare per spacciatore. Io però sono irremovibile. Allora il professore se ne va, scappa. Dopo che è andato via io provo la cocaina, ne sniffo un po’ per vedere come è. Mi sento un po’ intontito, però con un desiderio sessuale, e poi mi ritrovo con una ragazza bionda che anche lei era fatta di cocaina”.
Attraverso alcune sue associazioni, e alla lunga conoscenza del pa- ziente, interpreto come ci sia una parte sua in combutta con la madre, che prova la cocaina dopo aver fatto il professore. B. allora mi dice quanto, come sua sorella, egli odiasse il padre e ora la madre, e come ella non è stata capace di staccarsi da loro se non morendo, a differenza di lui che ora vuole andarsene per conto suo. Penso, gli dico, che oltre all’odio ci fosse, e ci sia, un grande bisogno di amore: ogni figlio ha bi- sogno di genitori. Allora pensavo a come la sua droga, la masturba- zione, che iterativamente egli settimanalmente mi riporta in seduta – tendendo a provocare in me sentimenti di disperazione e inutilità del mio lavoro – può anche essere il modo per esprimere quel se stesso che non vuole rassegnarsi ad avere una madre che spaccia morte invece che offrirgli vita, segnalandomi continuamente il proprio malessere. Lui è dipendente, ma forse vorrebbe essere dipendente da una mamma che offre zollette di zucchero, non cocaina. Ma penso anche che io sono stato qualcuno che gli ha offerto zollette di zucchero, ma una sua parte perversa non le accetta, le trasforma in cocaina. Come un bambino ar- rabbiato con la mamma, che butta via le caramelle che la mamma gli offre, ma butta via anche quelle che gli offre la zia. Non può accettare quello che di buono io posso offrirgli in quanto nel suo oggetto zuc- chero e cocaina sono mischiati.
B. allora manifesta la paura di dover cambiare modo di vedere sua madre: sembra quasi che io gli dica che sua madre lo aiuta, ma questo proprio non è vero. Ha proprio paura che io gli chieda di rinunciare alla sua vendetta, masochisticamente perpetrata. Allora, dentro di me, penso a un oggetto primario di cui lui ha disperatamente bisogno, ma che è stato “cattivo” nel momento in cui ne aveva più bisogno: allora questo oggetto deve essere preso così come è, senza poter rifiutare, scindere, i suoi aspetti “cattivi”. Si configura così un oggetto buono e cattivo in maniera confusa, che confonde il proprio sentire: amore e odio si mescolano inesorabilmente; il sentimento legato al dipendere è intriso di rabbia. Questo oggetto viene inalato, in una confusione totale tra ciò che è vitale, il respiro, e ciò che è mortifero, la droga, associata alla sessualizzazione e alla maniacalità.
“...La sessualizzazione è impiegata come una difesa contro la rela- zione reale, che implica separatezza dall’oggetto” (Joseph, 1997, p. 161). La separatezza dall’oggetto peraltro è qualcosa che può essere primariamente rappresentata nella mente del bambino a patto che essa sia operante nella mente della madre, che non può essere quindi una madre sola (vedi Di Chiara et al., 1985).
Sebbene la separazione rappresenti la condizione perché un’auten- tica vita psichica possa svilupparsi, ciò non toglie che essa si realizzi come un dramma dall’esito non scontato. Penso che essa sia resa tolle- rabile solo a condizione che la sua bontà sia ben chiara nella mente della “madre”, così come un buon setting è tollerabile per il paziente a patto che sia ben chiara nella mente dell’analista la sua “buona neces- sità”. Ma se questo spazio mentale in cui la separazione può realizzarsi non è operante, come nelle condizioni di una madre sola, essa può di- venire intollerabile.
Britton ha definito tutto questo in termini assolutamente chiari: “The closure of the oedipal triangle by the recognition of the link joining the parents provides a limiting boundary for the internal world. It creates what I call a ‘triangular space’... The capacity to envisage a benign pa- rental relationship influences the development of a space outside the self capable of being observed and thought about, which provides the basis for a belief in a secure and stable world” (Britton, 1989, pp. 86- 87)(2). E ancora descrive ciò che avviene nelle situazioni in cui la cosa non funziona: “In some personalities, therefore, the full recognition of parental sexuality is felt as a danger to life... greater knowledge of the oedipal situation is also felt to initiate a mental catastrophe”, di fronte alla quale “...[he] mutilates his mind in order not to perceive it”
(Britton, 1989, p. 90)(3). Questa catastrofe sembra legata alla rottura, data dall’intrusione del terzo, di un’illusione legata a un oggetto ma- terno ideale, posseduto in esclusiva, e sentito, dice ancora Britton, come la sorgente della vita. La creazione di quella che Britton chiama l’illu- sione edipica può essere ritrovata nel caso di A. nell’identificazione ma- terna, per cui egli da un lato possiede la madre divenendo essa, e dal- l’altro in questo modo non risulta escluso dal rapporto dei genitori. L’onniscienza che ne deriverebbe rappresenta così la sua forma di muti- lazione mentale, in quanto esclude la possibilità di un’altra stanza (vedi Britton, 1995), la stanza in cui non si può entrare e che stimola, per questo, la fantasia e la creatività. Melanie Klein (1932) osservò come nel- l’omosessualità un elemento caratteristico sarebbe la mancanza di curio- sità, manifestata da superficialità come negazione dell’inconscio a fa- vore dell’importanza della realtà esterna, rappresentata concretamente per l’interesse verso il pene, visibile, rispetto alla vagina, invisibile. Essa metteva in relazione questo con l’angoscia legata alla percezione dell’in- terno del corpo della madre e di quello che contiene. Mi sembra che questo sia collegabile alla percezione del legame, dello spazio mentale costituito dalla presenza del terzo, da un primario costituirsi dell’“altra stanza”, rispetto alla quale è necessario operare un lutto e sviluppare funzioni simboliche, che è anche come dire sviluppare se stessi.
La frustrazione orale può essere intesa come quella rottura di un le- game diadico ideale da cui proviene la vita, e, ci insegna la Klein nel- l’indimenticabile quarto capitolo di Invidia e gratitudine (1957), la di- fesa da questa frustrazione porta a genitalizzare l’oralità, il bisogno pri- mario del seno, e con ciò a stabilire il primato della morte sulla vita at- traverso la negazione del bisogno e della curiosità. “...the arrival of the notion of a third always murders the dyadic relationship – afferma an- cora Britton – ...it is through mourning for this lost exclusive relation- ship that it can be realized that the oedipal triangle does not spell the death of a relationship but only the death of an idea of a relation- ship”(4) (1989, p. 100), che è come dire che la nostra crescita reale si opera sempre sul limite del lutto delle nostre illusion
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Luca Trabucco
Via San Fruttuoso, 68/6 16143 Genova