Illegittimi e fuori luogo: giovani stranieri in carcere - Varchi n. 18
di Doriano Saracino
A cavallo tra gli anni ’70 e ’90, Abdelmalek Sayad studia la storia collettiva e le biografie degli algerini che avevano lasciato il loro paese per andare a vivere in Francia. Attraverso l’analisi di un movimento migratorio sostanzialmente unitario ed esemplare, Sayad ci introduce a comprendere i molteplici aspetti di un fenomeno che riguarda tanto il paese di origine quanto quello di accoglienza, perché se è vero che l’emigrazione-immigrazione mette in rapporto mondi diversi e lontani, va detto che il costo di questa operazione ricade in gran parte proprio sulle spalle dei migranti.
Nella sua prefazione all’opera postuma di Sayad, dal significativo titolo “La double absence”, Pierre Bourdieu scrive:
“Comme Socrate selon Platon, l’immigré est atopos, sans lieu, déplacé, inclassable. […] Ni citoyen, ni étranger, ni vraiment du côté du Même, ni totalement du côté de l’Autre, il se situe en ce lieu «bâtard» dont parle aussi Platon, la frontière de l’être et du non-être social. Déplacé, au sens d’incongru et d’importun, il suscite l’embarras”.
Da allora molto è cambiato, ma la crisi dei rifugiati e richiedenti asilo che ha contrassegnato il dibattito pubblico europeo negli ultimi anni rischia di non farci vedere con sufficiente lucidità né l’attualità dell’analisi di Sayad e di Bourdieu, né le nuove caratteristiche che il fenomeno migratorio sta assumendo. Le migrazioni femminili hanno una crescente importanza e le donne costituiscono ormai la metà dei migranti a livello globale. Non si muovono più soltanto a seguito del partner o dei genitori, ma sono le prime ad aprire la strada a nuovi flussi, provvedendo in prima persona al mantenimento sia di quel pezzo di famiglia che vive nel paese di accoglienza, sia di quella parte che è rimasta “al di là del mare”. È inoltre accresciuta l’incidenza dei minori stranieri non accompagnati, che giungono in Europa senza un vero progetto migratorio e che spesso sfuggono alle maglie di un sistema che è insieme di accoglienza e di controllo.
Nel corso di una ricerca in dieci carceri dell’Italia centro-settentrionale, scelti tra quelli con un più elevato tasso di detenzione di stranieri, ho raccolto le storie di vita di cento giovani che presentano alcune caratteristiche a suo tempo identificate da Sayad: fuori luogo ovunque, assenti sia nel paese di origine sia in quello di accoglienza, illegittimi e con una identità incerta, privi di una solida rete di sostegno e dunque isolati. A questi tratti si accompagnano quelli riconducibili alle recenti evoluzioni dei modelli migratori: molti giunti in Italia da soli, come minori non accompagnati, o ricongiungendosi ai genitori o alla sola madre, che per aprire un percorso migratorio aveva lasciato i figli nel Paese di origine, in un contesto a forte rischio di abbandono, abusi e violenza. Alcuni estratti di tali profili sono qui presentati.
“La mia infanzia è stata bella e brutta. Bella perché avevo tutto, brutta perché mi mancavano i miei genitori, mi avevano lasciato quando avevo nove anni, mi avevano lasciato con mia sorella che aveva due anni, praticamente l’ho cresciuta io. Mi avevano lasciato prima dai miei zii, non mi sono trovato bene, ho fatto casino con loro, ci siamo litigati, siamo pure venuti alle mani, un ragazzino di dieci anni con due maggiorenni. La zia era incinta, ha pure perso il bambino, l’ho buttata giù dalle scale perché loro picchiavano mia sorella. Così sono andato ad abitare con mia nonna. Mia nonna mi lasciava la libertà di fare tutto. Si preoccupava di mia sorella, io potevo uscire. A dodici anni e mezzo ho iniziato con la droga, cocaina e marijuana, con le bande. Avevo pure la mia pistola” (César – Ecuador, 25 anni).
César diventa grande da solo, come molti dei giovani stranieri intervistati in carcere. Nel frattempo la sua famiglia si ricompone: i genitori riescono a far venire in Italia lui e la sorella, ma non senza difficoltà, in quanto per due volte César rifiuta di salire sull’aereo, perché il suo legame con le bande giovanili è ancora molto forte. In Italia, dopo qualche tempo, è accusato di tentato omicidio nei confronti di un coetaneo che aveva derubato sua madre.
Il fenomeno delle migrazioni femminili si accompagna all’esistenza di famiglie transnazionali, in cui una parte vive in Europa occidentale ed un’altra nel Paese di origine. In questo contesto, le donne vivono la difficile esperienza di una maternità a distanza nei confronti di figli che non le hanno immediatamente seguite nella migrazione. Troviamo così un fenomeno di “trasferimento delle cure”: ne vengono privati i figli nel Sud e nell’Est del mondo perché possano averne i bambini e gli anziani del Nord.
I genitori emigrati all’estero non trasferiscono alle loro famiglie soltanto dei fondi, ma cercano di mantenere un legame attraverso varie forme di comunicazione e di regali, che assumono l’aspetto di vere e proprie “rimesse sociali”.
Sono nato a Casablanca e sono venuto in Italia, a 15 anni. La mia vita là era bella, stavo là, studiavo, ero con mio padre perché mia madre era venuta in Italia perché aveva litigato con mio padre, non parlava più con mio padre. Io stavo con lui, Ero piccolo piccolo, lei mi mancava, però tutte le tutte le estati veniva, mi portava la bicicletta, regali, stava tre mesi. Abitava in un’altra casa ma nel nostro stesso quartiere, cinque minuti a piedi da casa mia. Lei in Italia non ha avuto un’altra famiglia (Tarek, - Marocco, 23 anni).
I tatuaggi che ho li ho fatti in Italia, vogliono dire la mia vita. C’è il mio nome, quello di mio figlio, qui c’è scritto “solo Dio mi può giudicare”. Poi c’è il nome di mio padre e di mia madre. Qui c’è il rosario ed un fiore. Sempre quando vado a letto prego una orazione, sempre chiedo per mia madre, mio padre, mia sorella, e quella rosa ha un significato, perché da piccolo mia madre mi aveva regalato una rosa, me la aveva mandata dall’Italia (Pablo - Ecuador, 22 anni).
Gli intervistati sono una realtà rappresentativa, per età e origine nazionale, dei giovani stranieri presenti nelle carceri italiane, pur essendo lievemente sovrarappresentati i marocchini, la cui presenza è massiccia nelle case circondariali oggetto di indagine. Almeno un quarto del totale non ha più alcun rapporto con il padre, o perché deceduto o perché allontanatosi dalla famiglia. Su cento intervistati, solo tredici hanno entrambi i genitori in Italia e continuano ad essere in rapporto con entrambi.
Condizione dei genitori | madre | padre |
Assente (deceduto, rottura dei legami, ecc.) | 3 | 25 |
Nel paese di origine | 57 | 47 |
Immigrato in Italia | 28 | 16 |
Immigrato in un altro paese | 2 | 3 |
Informazione non disponibile | 10 | 9 |
Emerge un quadro di profonda solitudine, che comprendiamo meglio considerando altri due elementi: l’età dell’arrivo in Italia, che oscilla intorno ai sedici anni, e la condizione di minore non accompagnato, che riguarda ventuno intervistati su cento. Sono giovani che giungono in Italia ad un’età particolarmente delicata, che devono compiere contemporaneamente una “doppia transizione”: verso l’età adulta e verso la cultura del paese di accoglienza, e spesso senza una valida mediazione genitoriale.
“Sono venuto dall’Albania con mia mamma, mio padre non ce l’ho. Lei si era fatta fare il permesso, i suoi genitori erano già qui, erano arrivati nel 1990. A dieci anni sono andato nella prima comunità per minori, ne ho girate quattro o cinque, fino ai tredici anni. Poi sono andato in giro da solo: il compagno di mia madre, italiano, mi menava sempre: non ero suo figlio... Così sono scappato, non mi volevo far trovare. Mia madre non mi difendeva più di tanto. Ho vissuto per strada, e per mangiare dovevo rubare. Sono finito al minorile. Prima al Beccaria di Milano, poi mi hanno trasferito a Catanzaro e poi a Palermo perché ero scappato. Lì non capivo la gente, non mi orientavo. Ho fatto isolamento. Dopo mi hanno portato a Treviso, lì ho iniziato a fare colloqui con uno psicologo che mi ha aiutato. Io lo capisco se uno psicologo ci mette del suo o no. Se non ci mette del suo, stacco. La psicologa che avevo prima mi aiutava, questa non mi dice niente... Ed io dico “vatti a guadagnare il tuo stipendio da un’altra parte” (Endrit - Albania 22 anni).
Chi giunge come minore non accompagnato trova nella comunità un approdo, che però deve essere lasciato con la maggiore età, ed i percorsi di inserimento sociale sono solitamente a termine.
“A 18 anni ho lasciato la comunità per minori. Ho lavorato da un gommista, ho fatto tre mesi di borsa lavoro, poi mi hanno detto che il lavoro non c’era più. Ho aspettato sei mesi, il lavoro non c’era. Ho dovuto lasciare. Un ragazzo pakistano mi ha visto in giro, mi ha chiesto se lavoravo, gli ho detto di no, mi ha offerto di lavorare per lo spaccio. Vendevo hashish. Ho lavorato per un anno, ho mandato un sacco di soldi in Pakistan ai miei genitori. A loro dicevo che lavoravo in una bancarella. Quando mi hanno arrestato, mia madre l’ho chiamata dopo un anno, non sapeva dove ero. Poi ho avuto i domiciliari presso la casa di amici. Quando ero dentro pensavo di non voler più fare questo lavoro, ma una volta uscito ho ricominciato” (Bassam - Pakistan, 21 anni).
Mohamed è arrivato in Italia come minore non accompagnato a circa dodici anni. Vive in comunità, in Emilia, ma divenuto maggiorenne la deve lasciare. Trova ospitalità, in modo non formalizzato, presso una famiglia italiana che aveva iniziato a seguirlo già in precedenza. Il terremoto del maggio 2012 cambia tutto, perché non faceva parte del nucleo familiare.
“A diciotto anni mi hanno tolto tutto, mi hanno fatto prendere in carico da me stesso, mi hanno fatto diventare grande. Col terremoto nel 2012 il comune non mi ha preso in carico. La famiglia ha preso un camper, io stavo in una tenda” (Mohamed – Marocco 22 anni).
In carcere, Mohamed come altri tenta il suicidio. L’esperienza della detenzione, con lo shock che ne consegue, fa sì che il giovane straniero diventi doppiamente illegittimo: in quanto detenuto ed in quanto immigrato. Allo stigma si somma stigma, ed il senso di isolamento pervade le giornate. Al tempo stesso il carcere rappresenta un’occasione, spesso la prima e talvolta l’ultima, in cui lo Stato entra in contatto con questi giovani, mostrando non solo il proprio volto repressivo ma realizzando la finalità costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale. Si tratta di polarità tutte ben riassunte dalle parole di Adil, con cui si conclude questo contributo.
“Qui alla custodia attenuata è diverso, ci sono psicologi, anche le guardie sono diverse, sono forse più umane, ti danno dei consigli, anche gli educatori. Ci sono corsi lavorativi, faccio rugby, teatro, pulizia. Poi dicono che fanno gli inserimenti in comunità, affidamento lavoro. Facciamo dei gruppi terapeutici, di gestione rabbia. Ho imparato a non fare quello che mi viene in mente, ma ci penso tre o quattro volte. È l’ultima chance che ho. Da quando mi hanno arrestato l’ultima volta, mia moglie non è più venuta. Mia madre ha chiamato mia moglie, che le ha detto che mi aveva già dato un’altra chance, ma io avevo scelto un’altra vita. Vedrò solo mia figlia: è l’unica cosa bella che ho fatto nella vita, che mi fa alzare dal fango. Io non so se sono più italiano o più tunisino, se c’è da festeggiare festeggio con tutti. Quello che ti fa capire che sei straniero è che quando hai i colloqui non hai nessuno che ti viene a trovare” (Adil – Tunisia, 27 anni).