Ma chi e’ lo straniero? mappe, immagini, idee per capire - Varchi n. 18
di Gabriella Paganini
Chi è lo straniero? L’altro, il diverso da noi, che oggi coincide nel comune sentire essenzialmente con il migrante. Sullo straniero la riflessione pubblica nel nostro paese non è all’altezza della complessità del problema: da un lato si enfatizza la dimensione della minaccia, creando un vero e proprio mercato della paura; dall’altro spesso si indugia su una retorica umanitaria che ignora il disagio dell’incontro.
Per avere qualche utile strumento di analisi della questione e mettere un po’ di ordine tra le idee, ci siamo rivolti ad alcuni operatori sociali, per intercettare uno sguardo diretto sulla realtà, e al mondo della cultura per raccogliere le diverse prospettive, antropologiche, sociologiche e filosofiche con cui ci si può avvicinare a questo tema. E un buon inizio è partire dai numeri.
Evidenza statistica e rappresentazione
Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Milano e direttore della rivista Mondi migranti, in una conferenza del 3 aprile 2017 a Palazzo Ducale, L’immigrazione oltre Lampedusa. La realtà dell’immigrazione oltre gli stereotipi, dati alla mano smontava una serie di affermazioni considerate sacrosante dalla vulgata corrente: il fenomeno è percepito in drammatico aumento, ma i dati dicono che è stazionario, attestato sui 5,5 milioni circa di presenze, tra cui circa 400.000 irregolari; si pensa che la motivazione principale sia la richiesta di asilo, mentre in realtà la maggior parte arriva in un primo tempo per lavoro e poi per i ricongiungimenti famigliari; si ritiene comunemente che gli immigrati siano prevalentemente maschi, musulmani e originari dell’Africa e del Medio Oriente, mentre le statistiche dicono che l’immigrazione è prevalentemente europea, femminile e proveniente da paesi di tradizione cristiana. Solo un terzo è di religione musulmana e comunque è il cristianesimo ortodosso la seconda religione nostrana. Infine 2,3 milioni risultano occupati regolari e circa un milione sono i minori. La rappresentazione corrente coincide con la realtà del fenomeno nella sua fase iniziale, risalente a 20-25 anni fa, ma col tempo le componenti dell’est europeo hanno preso il sopravvento, anche se tendiamo a non vederle perché sono donne che lavorano nelle famiglie con gli anziani e quindi sono meno visibili di chi gira per la città, magari in gruppo, magari scuro di pelle come la maggior parte dei rifugiati o mendica fuori dal nostro supermercato.
Non siamo gli unici a sovrastimare il fenomeno, ma, conclude Ambrosini, l’Italia spicca perché è il paese in cui la differenza tra il dato stimato e quello reale è più alta, il 17%, mentre negli altri paesi arriva al massimo al 10%. Noi sovrastimiamo tutto, il numero dei migranti, l’aiuto che ricevono e questo nonostante Tito Boeri, presidente dell’INPS, abbia dichiarato che gli immigrati prendono 3 miliardi a fronte dei 9 che versano in contributi a fondo perduto: costa il pezzo dei richiedenti asilo, ma sulle pensioni sono contribuenti attivi.
I dati aggiornati al 2017 forniti dal Dossier statistico immigrazione, elaborato dal Centro studi e ricerche Idos, in partenariato con la rivista Confronti, analizzando e incrociando dati dell’Istat, dell’Inps e del ministero dell’Interno, confermano la sovrastima del fenomeno: al 31 dicembre 2016 il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia (5.047.028) è aumentato di appena 20.875 persone rispetto al 2015, e rappresenta il 13,7% rispetto all’Europa. Nel 2016 sono entrate 181.436 persone, il numero più alto mai registrato, ma tale numero si è drasticamente ridotto dal luglio 2017 (gennaio-ottobre -30% rispetto allo stesso periodo del 2016 e -68% nei mesi successivi) per una serie di accordi con la Libia, peraltro fortemente contestati per la criticità che presentano nei percorsi internazionali di protezione.
I dati ci riportano alla realtà anche come liguri e genovesi: in Liguria sono 138.000 i residenti di nazionalità straniera, 71.000 a Genova. Otto persone su 100, con un aumento minimo dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Sono in gran parte giovani: 34 anni di età media contro i 49 anni degli autoctoni. Inoltre in Liguria sono 117.000 i titolari di un permesso di soggiorno, ma la gran parte di essi, il 66%, ne possiede uno di lungo periodo, a fronte dei permessi per richiesta di asilo, quelli che colleghiamo agli sbarchi, che sono in Liguria 2235, molti di meno di quelli rilasciati per motivi famigliari, che sono 3028. I richiedenti asilo ospitati in regione sono 5.787 (dato del 31/3/2017), pari al 3% degli immigrati accolti in Italia. Circa la metà sono stati accolti in varie strutture a Genova, la maggioranza nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) disposti dalle Prefetture e 517 nel circuito SPRAR gestito dai Comuni.
Senza contare che in Italia il saldo della bilancia migratoria è negativo: secondo le Anagrafi consolari sono 5.383.199 gli italiani all’estero a fronte dei 5.359.000 residenti stranieri. E senza contare che in realtà l’86% delle persone in cerca di asilo trova accoglienza in paesi del cosiddetto terzo mondo e meno del 10% arriva in Europa (nel 2015 ad esempio il Libano ha accolto più rifugiati siriani dei 28 paesi dell’UE messi insieme, 1.100.000 in un paese di 4,5 milioni di abitanti).
Radici... e memoria
Le radici e le tradizioni culturali che invochiamo per reagire allo spaesamento e all’inquietudine che il contatto con lo straniero provoca in noi, e che da questo sentiamo minacciate, potrebbero al contrario fornirci una chiave adeguata di lettura del presente e delle nostre paure e uno strumento per affrontarle.
Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia presso l’università di Padova, in un’opera del 2010 intitolata Straniero ci guida a questo scopo in un viaggio a ritroso dall’antichità classica fino agli esiti più rilevanti della ricerca contemporanea: l’idea fondamentale è che una possibile mediazione tra le due posizioni estreme dell’accoglienza e del respingimento sia da rintracciare proprio nella natura ambivalente dello straniero, colui che ci minaccia, ma ci fa anche un dono perché ci conferisce la nostra identità, costituendo l’altro termine di un binomio dal quale non possiamo prescindere. E il mondo greco e latino proprio di questa ambivalenza aveva lucida consapevolezza, come dimostra il termine xenos che indicava al tempo stesso lo straniero come ospite e come nemico, cosa che accade anche per la parola latina hostis che, accomunata dalla stessa radice a hospes, ha mantenuto la stessa ambivalenza per sette secoli, fino al De officiis di Cicerone, cioè al I secolo d.C. Scrive Curi: “Le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre unità distinte – semantiche e giuridiche – presentano strette connessioni nelle lingue indoeuropee antiche”. Dopo il primo secolo l’ambivalenza originaria si scioglie e hostis rappresenta lo straniero con cui si ha un rapporto conflittuale e hospes quello con cui si ha un rapporto di ospitalità. “Ma – aggiunge Curi - se anche lo straniero è colui che può diventare hostis, questa parola non esaurisce in alcun modo il significato dello straniero, per il quale resta sempre aperta la possibilità di divenire ospite, oggetto di dono e di accoglienza”. I due termini non indicano due stati, due condizioni immutabili, segnalano piuttosto dinamiche che si intrecciano e che almeno virtualmente sono suscettibili di modificarsi e di tradursi l’una nell’altra.
Non stupisce quindi che nel mondo classico questa ambivalenza conviva con una concezione sacra dell’ospitalità. Ulisse naufrago approda all’isola dei Feaci: in un primo momento si nasconde dietro una roccia e poi si fa avanti. L’aspetto non è rassicurante, è lacero, con la barba folta. Le ancelle fuggono impaurite, ma Nausicaa le riporta alle ferree e sacre leggi dell’ospitalità: è xenos, va accolto; prima va ripulito, rifocillato e solo dopo è lecito accertarsi della sua identità e delle sue intenzioni. È uno dei numerosi esempi che Curi trae da Omero o dalla letteratura tragica. Perché, si chiede il filosofo, ci siamo così allontanati da questa mentalità?
Gilda della Ragione, già docente di Antropologia delle religioni presso l’Università di Genova, definisce accoglienza questo tipo di disponibilità, distinguendola dall’ospitalità. “Accoglienza verso una persona significa essere disponibile per lei perché è in una situazione di difficoltà, ospitalità è quando ci si dà da fare per aiutarla, ma anche senza entrare in empatia. L’ospitalità è importante, intendiamoci, ma l’accoglienza è un fatto di mente, di spirito, vuol dire aprirsi a qualcosa che non si conosce, mettersi in gioco in prima persona per cogliere la risonanza emotiva che l’incontro con l’altro provoca in noi, rendendoci consapevoli della qualità dell’esperienza e del fatto che l’alterità è un modo per scoprire la nostra identità, è una dinamica in cui io posso essere al posto dell’altro e viceversa. E allora nell’incontrare qui lo straniero, il migrante, io non capisco chi non riesce a fare questa considerazione di poter essere al posto suo e lo demonizza senza neanche sapere chi è. Ci sono delle popolazioni, ad esempio i beduini, che se tu arrivi ad una tenda ti accolgono, ti danno da mangiare e per tre giorni ti ospitano; e in quei tre giorni nessuno ti chiede niente, cosa che io trovo di grande civiltà. E ti danno tutto il meglio che hanno, il miglior letto, il miglior cibo perché si identificano in te; poi naturalmente ognuno torna nella sua identità”.
Recuperare l’ambivalenza del concetto significa anche evitarne l’appiattimento sulla connotazione positiva dell’hospes, perché questo ci impedirebbe di prendere atto della fondatezza delle nostre paure, di riconoscerle e prenderci cura di esse, non limitandoci semplicemente a censurarne le manifestazioni e meno che mai ad alimentarle per scopi politici. “Quella paura – conclude U. Curi – indica che, per quanto confusamente, si è colto un punto decisivo, nel senso che questo altro che mi si pone di fronte mi obbliga a rimettermi in discussione, mi chiama ad un confronto a cui non posso sottrarmi. Se opportunamente “curata”, e non strumentalmente utilizzata, quella paura può diventare un elemento essenziale nella costruzione di una relazione di ospitalità, in quanto rende chiara fin dall’inizio la natura intrinsecamente ambivalente di quella relazione”. Recuperare l’ambivalenza del concetto è quindi per Curi l’unica strada che ci può preservare dalle facili semplificazioni dell’odierno linguaggio comune, che da un lato tende a confondere gli stranieri in una massa anonima e indifferenziata, dall’altro ad inscriverli in categorie (migrante, rifugiato, profugo, esiliato, clandestino, minore non accompagnato) che, lungi dal rivelare un nostro desiderio di comprensione, sono solo determinazioni semanticamente inscritte nell’opposizione irriducibile noi-loro, tese a esercitare al più un controllo rassicurante sul fenomeno.
Noi e loro: chi insegna a chi?
Luca Jourdan, docente di Antropologia culturale e Antropologia politica presso l’Università di Bologna, ha condotto numerose ricerche etnografiche soprattutto nella Repubblica democratica del Congo e in Uganda e così spiega il suo impatto con l’Africa: “Mi sono accorto di avere più cose in comune con i miei amici a Kampala, con cui sento musica e parlo di politica, che con il mio vicino di casa. Mi sono anche accorto di come ci sia in Africa una dimensione della vita che definirei come ricerca dell’avventura e del rischio che noi non abbiamo, perché siamo molto più calcolatori. Certo l’Africa è un continente giovane, l’Italia è il paese più vecchio al mondo, ma questo per me ha costituito un motivo di forte fascino. E poi mi ha sempre colpito l’impatto con i cosiddetti bambini soldato di 15-16 anni: mi narravano la loro esperienza di vita, una vita densissima in cui ne avevano fatte di cotte e di crude, nel bene e nel male, di fronte ai quali io, che pensavo di arrivare da un mondo più evoluto, mi sentivo il bambino, io che avevo il doppio dei loro anni ma l’esperienza di vita piuttosto noiosa e limitata di un piccolo borghese di provincia. Mi colpiva la densità di queste vite a fronte del pregiudizio dell’occidentale che pensa di andare lì e insegnare qualcosa... era come se si invertissero un po’ i ruoli”.
Analogamente Alessandra Risso, operatrice della Cooperativa La comunità, sente cadere le barriere davanti ai minori che arrivano dopo viaggi drammatici: “Ti fanno riflettere tanto. Ne ricordo due giovanissimi, scappati a 16 anni: arrivavano dalla Grecia dopo avere fatto tutta la Turchia a piedi; erano arrivati ad Ancona, uno aggrappato sotto un autobus e l’altro nascosto dentro. Il primo pensiero è stato: io non ce l’avrei mai fatta, soprattutto a 15 anni, sarei morta dopo due settimane”.
Così G. Della Ragione racconta quello che ha imparato dal suo lavoro di antropologa, svolto prevalentemente nelle isole della Polinesia: “Ho smesso di giudicare: l’antropologia insegna che di fronte all’altro all’inizio è necessario il più possibile essere una tabula rasa, fare silenzio dentro, come di fronte al mare aspettando l’onda che viene. È necessaria una grande apertura perché quello che c’è dietro è molto di più di quello che appare ed è molto più interessante e arricchente”. E offre la possibilità di una prospettiva inedita da cui tornare ad uno sguardo su di noi: “In Papua Nuova Guinea – continua - mi portavo sempre nello zaino del riso, dei dolci, avevo la preoccupazione di rimanere senza cibo. Una sera mi trovo in un posto e decido di tenere i viveri per l’indomani. Mi guardano e mi chiedono perché. Spiego che non si sapeva se l’indomani avremmo trovato qualcosa e loro mi spiazzano dicendo ‘ma che ne sai del domani? Mangia adesso perché ce l’hai adesso’... vivono il momento presente, mentre noi abbiamo una mentalità calcolatrice”.
Santa Bellomia, operatrice del Consorzio Agorà, spiega come anche nei Centri di accoglienza per migranti emerga spesso, anche se non esplicitata con piena consapevolezza, l’idea della loro arretratezza di fronte al nostro sviluppo tecnologico: “C’è sempre quest’idea che noi siamo più avanti, lo senti nelle parole che le persone usano per rapportarsi a questo fenomeno. Tutte parole che significano che noi abbiamo già fatto un pezzo di strada che loro devono ancora fare. Per esempio mi disturba molto la parola ‘dialetto’. Le persone che arrivano dall’Africa parlano le lingue veicolari dei colonizzatori, ma poi hanno la loro lingua che è una lingua strutturata; nel momento in cui anche persone inserite nel sistema, istruite e rispettose di quello che sta accadendo, la definiscono dialetto, in realtà la sminuiscono”. “L’altro giorno – aggiunge Michele Corioni, educatore del Consorzio Agorà - una psicologa mi chiedeva se avevamo dei mediatori per parlare i dialetti dei ragazzi. Ma scusi, faccio io, il dialetto di questi ragazzi è il bambara; era un impero che, quando c’era, era grande come l’impero romano!”. Anche secondo loro l’incontro con questi giovani stranieri può essere occasione di una doppia conoscenza, di loro e di noi: “Ci vedono vecchi – aggiunge S. Bellomia – e notano sorpresi il nostro modo di vivere la quotidianità, sempre di corsa, senza riflettere, spesso senza prendersi il tempo per salutare la persona che incontriamo per strada e scambiare due parole con lei”. Sottolinea come ci regalino un nuovo sguardo sulle cose, un modo inedito di vivere il mondo, sentendo quasi come magici aspetti per noi scontati. Mi fa vedere una foto che ritrae un ragazzo di colore alla Madonna del Monte, che con le infradito e le calze sembra danzare felicemente stupito sotto la neve che non aveva mai visto. “Un’altra cosa che mi piace molto – continua - è come vivono il passato e il presente; con qualcuno mi è capitato di parlare in maniera più profonda di come fanno a non avere incubi, a non stare male pensando a tutto quello che hanno passato. Noi schematizziamo per facilità e diciamo che c’è la rimozione, ma non è così. Loro dicono: io ora sono qui, quello è passato, non ha più senso, non sono più lì”. “E poi - aggiunge M. Corioni – mettono in luce, anche senza saperlo, le nostre contraddizioni, come l’insofferenza che emerge verso il diverso addirittura dentro i servizi sociali, e il fatto che siamo fascisti e razzisti nonostante la nostra Costituzione... e poi le nostre paranoie, sulla salute per esempio e sulle malattie. Faccio un esempio. C’è un caso di tubercolosi in comunità, quindi screening, test mantoux a tutti gli operatori e ragazzi: il 50% risulta positivo e tutti, all’Ufficio di igiene a S. Martino, terrorizzati si chiedono come fare. Ma ci sono in Italia delle linee guida sulla tbc del Ministero della salute, che tra l’altro in una pagina riportano i paesi che fanno la vaccinazione nei primi anni di età a tutti gli abitanti. Quasi tutti i ragazzi che abbiamo da noi sono vaccinati, è per quello che risultano positivi; però la paranoia è totale”.
Chi è lo straniero?
Spesso lo straniero che arriva comincia ad esistere per noi nel momento in cui varca la frontiera, come se non avesse una storia alle spalle solo perché non condivisa con noi. “Arrivano qui in una condizione particolare - sottolinea Simona Binello, coordinatrice dell’area migranti del Consorzio Agorà che gestisce circa 400 posti per l’accoglienza - perché non sono più quello che erano prima, sono sempre ex qualcosa, o ex papà, o ex mariti, o ex lavoratori di una certa professione. Questo aspetto non è trascurabile, perché lo straniero deve lavorare su di sé per riconoscere queste parti del suo passato, non può rinnegarle e al tempo stesso deve trovare prospettive e aperture per il futuro. L’operatore deve aiutarlo proprio a ricucire il passato col presente e il futuro”.
Con lo sguardo della sociologa Gabriella Petti, docente di Sociologia della devianza presso l’Università di Genova, considera quello di straniero un concetto-contenitore. “Io non lo vedo lo straniero, nel senso che lo straniero è qualcosa che non dovrebbe esistere... e poi c’è da chiedersi ‘straniero rispetto a chi?’: non è straniero un inglese? O un americano, o un russo? Ma il permesso di soggiorno va chiesto solo a chi proviene da quei paesi dove l’allarme sociale è più alto, nessuno lo chiederebbe mai ad un americano o ad un canadese. Siamo tutti lo straniero di qualcuno e noi per primi siamo stranieri in ogni paese; da noi fino a poco tempo fa lo straniero era il meridionale, oggi è il rifugiato… sostanzialmente è una categoria della marginalità e dell’allarme sociale. È la costruzione del nemico, un nemico che di volta in volta cambia”.
Anche per Emanuela Abbatecola, docente di Sociologia del lavoro presso l’Università di Genova, concetti come straniero e migrante dipendono dallo sguardo della società, declinato in base a criteri che creano diseguaglianze: “È una rappresentazione con un confine costruito rispetto alla provenienza, al colore della pelle con tutte le sue gradazioni e al capitale socio-culturale o economico. Il termine extracomunitario lo spiega bene: sulla carta definisce una persona appartenente ad un paese che non fa parte della Comunità Europea, ma se io chiedo ai miei studenti di dire di pancia chi è extracomunitario tre un rumeno e uno svizzero, dicono il rumeno. Ogni volta che c’è un’alterità la società costruisce barriere, come i muri o i Cie, ma ci sono anche altri modi, come il linguaggio: extracomunitario, badante, negli anni ’80 vu cumprà sono tutti modi per ridimensionare, screditare”.
“C’è un bellissimo passaggio di Georg Simmel nei suoi scritti di sociologia – nota Walter Baroni, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova - in cui afferma che lo straniero è colui il quale giunge nei pressi dell’autoctono e con lo sguardo da esterno mette in discussione l’ovvio, ciò che è dato per scontato, ciò che scompare nell’opacità della quotidianità. Per me lo straniero è quello che arriva e non ti salva, come fa lo straniero teologico della religione cristiana, ma ti aiuta a ripensare ciò a cui normalmente non pensi. Ma nella retorica massmediatica sulle migrazioni, sia nel discorso di senso comune sia interculturale, nella galassia di termini con cui viene indicato il migrante, rifugiato, richiedente asilo, migrante economico ecc., la casella dello straniero nell’accezione di Simmel, quello che vede le cose che tu non vedresti, è sempre vuota, perché gli darebbe troppa dignità; il migrante, che scappi da guerre o da miseria, è sempre e solo colui che è in una posizione di bisogno”.
Non solo vittime
Appiattita sulla categoria del bisogno, la figura del migrante emerge essenzialmente come vittima, dimensione rassicurante perché evoca sottomissione, passività, magari anche scarsa difesa della propria dignità e, sicuramente, nessuna pretesa o rivendicazione di diritti.
S. Binello rifiuta questa impostazione: “Noi non abbiamo mai considerato queste persone come delle vittime, mancanti di qualcosa. È un trattamento che a volte può sembrare asettico, meno animato da empatia, anche se poi non è così vero, però aiuta a riconoscere loro delle risorse. Loro tendono ad avvicinarsi a chi ha un approccio un po’ pietistico, perché sul qui e ora c’è maggior ritorno. Se ti dico ‘sei in gamba e puoi fare da solo una serie di cose’ sono diversa da quello che ti dà magari dieci euro per un servizio. Lì per lì i dieci euro sono più gratificanti, ma queste risposte a breve termine non garantiscono un’integrazione. Noi abbiamo sempre trattato i nostri beneficiari, e ci tengo a chiamarli beneficiari e non utenti, come persone in grado di fare delle cose. E se si sottraggono, non facciamo sconti, come con gli italiani. Noi ti diamo gli strumenti e tu ti attivi, perché l’unica sfortuna che hai avuto è di essere nato dalla parte sbagliata del mondo... Però il loro pezzo lo devono fare. Noi non ci possiamo sostituire a loro. Molti dei mediatori che abbiamo arrivano dalle nostre accoglienze, ce li siamo coltivati per anni, alcuni da quando erano minorenni e oggi hanno famiglia”.
Il rifiuto dell’immagine dello straniero come vittima può diventare dirompente se oltrepassa la dimensione dell’accoglienza per abbracciare quella del fenomeno migratorio nel suo complesso. È la prospettiva di una corrente sociologica che vede nello straniero un soggetto politico fondamentalmente caratterizzato dalla capacità di autodeterminarsi, di affermare, magari inconsapevolmente, una volontà di libertà, una legittima aspirazione all’emancipazione, una ostinata determinazione a difendere la propria identità. Luca Queirolo Palmas, docente di Sociologia delle Migrazioni presso l’Università di Genova, così spiega questo punto di vista: “L’idea dei nostri studi è quella dell’autonomia delle migrazioni, che consiste nel partire dalla soggettività che esprimono le persone in transito per capire questo fenomeno. Questo per evitare di cadere in una lettura funzionalistica, idraulica delle migrazioni, come se i soggetti fossero delle pedine che si muovono da un luogo all’altro e questo movimento fosse scandito da istanze legate a grandi fattori strutturali di tipo politico-economico-demografico. Questi fattori ovviamente operano e agiscono, però c’è sempre una dimensione legata alla soggettività, al desiderio, all’ambizione, all’avventura, all’affetto, all’emozione che è quella che in ultima analisi spiega la forza che il migrante mette nel viaggio. Basta guardare le ultime foto di questi ragazzi con le scarpette da tennis e lo zainetto sulle montagne di Bardonecchia mentre cercano di passare il confine... Quel tipo di energia è qualcosa che eccede qualunque lettura funzionalistica delle migrazioni. Anche l’esperienza di Ventimiglia o di Calais può essere letta nella prospettiva di questa effervescenza, di questa energia collettiva che prova ad abbattere il confine, il proibizionismo migratorio europeo; ci parla della resistenza di questi soggetti ad essere trattati come cose che possono essere spostate, espulse, ricollocate, ammesse, riammesse, inserite dentro un sistema di accoglienza, e della loro determinazione ad affermare i loro bisogni e desideri, che poi sono quelli di qualunque essere umano, di raggiungere i propri famigliari in Inghilterra o in Germania, o semplicemente avere una vita migliore”.
Nel campo di Calais L. Queirolo Palmas ha condotto un’esperienza di ricerca etnografica, raccolta nell’articolo Tra le macerie della “jungle” di Calais, apparso lo scorso marzo sulla rivista Etnografia e ricerca qualitativa. E a colpirlo immediatamente è stata proprio la distanza tra la realtà di questo aggregato di 10.000 persone, assolutamente cosmopolita, e il racconto egemonico che le riduceva a vittime. “Quella che veniva chiamata la giungla di Calais - racconta - era mille volte più cosmopolita della città di Calais, assolutamente provinciale, e rivelava una straordinaria capacità di fabbricazione dell’urbano: quella che i giornali chiamavano giungla in realtà era una città, perché era costellata da un insieme di luoghi, di istituzioni che creavano spazio pubblico. A Calais si poteva ballare la notte, si poteva pregare, la chiesa cattolica stava accanto alla moschea, si poteva giocare a biliardo, mangiare la migliore cucina curda o sudanese, vi erano delle scuole, delle radio e tutto questo è nato nell’ambito più o meno di un anno. Ritornando all’idea della lebbra in Foucault come meccanismo di messa a parte, è chiaro che l’intento dei poteri pubblici era quello di creare un lebbrosario in cui confinare i rifugiati per toglierli dalla strada; i lebbrosi però hanno creato un mostro che non era più riconosciuto da chi aveva creato il lebbrosario ed è per questo, perché non era una giungla ma una città, che quel luogo andava smantellato, perché era pericoloso in sé, perché produceva dei soggetti che fuoruscivano dalla condizione di vittime e si ponevano in maniera da un lato creativa e dall’altra ostile, ma soprattutto collettiva, alla creazione del confine”.
E andava smantellata anche perché Calais è l’esempio di una lotta vincente da parte dei migranti; infatti questo scandalo umanitario ha obbligato lo stato a offrire una soluzione a quelle 10.000 persone al di fuori degli accordi di Dublino, facendo quindi saltare per loro il principio che il primo paese in cui si mettono le impronte sia quello definitivo.
Sembra proprio riferita a fatti come questo l’idea che dello straniero ci offre M. Corioni: “Oggi gli stranieri rappresentano l’unica genuina forza politica perché, anche se non lo sanno ancora, non tutti, non completamente, sono al di fuori dell’angusta contabilità a cui si è ridotta la politica e portano l’ideale, la volontà di miglioramento”. “Hanno speranza nel futuro – conclude S. Bellomia – e noi no. Sì, sono portatori di speranza ed io, che ho lavorato per tanti anni con le persone senza dimora, quindi gli ultimi degli ultimi sul territorio, la prima cosa che ho pensato quando ho iniziato questo lavoro è stato proprio questo, che ci regalano una visione del futuro continuamente migliorabile”.
Sul versante dell’accoglienza. Sfide, insidie, contraddizioni
Se l’accoglienza nell’accezione indicata da G. della Ragione presuppone l’apertura dell’animo ad un rapporto simmetrico con l’altro, quando diventa un sistema organizzato da uno stato, con il suo corredo di impostazioni teoriche e soluzioni pratiche, può nascondere lati insidiosi e contraddittori, al di là dell’impegno profuso da chi opera al suo interno. Già il termine accogliere, sia per E. Abbatecola che per G. Petti, è fuorviante, come il concetto del “prendersi cura” di qualcuno: entrambi mettono l’altro in una condizione di inferiorità, senza una soggettività politica piena; al massimo lo inscrivono in una cornice esotica considerata arricchente, senza però mai presupporre una contaminazione reciproca: “Più che di accoglienza – precisa G. Petti - io parlerei di convivenza; parlerei di individui e di possibilità di convivenza tra individui. L’unico modo, se si deve parlare di aiuto, credo sia quello di rendere consapevoli le persone dei diritti che hanno, altrimenti si rischia di attuare una modalità di governo inferiorizzante, a prescindere che diventi assimilazione o espulsione. Ritengo semplicemente che alcune modalità di controllo siano più immediate, rintracciabili e criticabili perché sono orrende, e altre avvengono in modo talmente subdolo da sembrare buone. È un fatto, a mio parere, che ora per lo straniero esistono due sole chance: o essere vittima di qualcosa, di qualunque cosa, per essere catalogato come rifugiato, oppure essere considerato criminale, fonte di paura. Non esiste il range della normalità, della quotidianità”.
Il corollario teorico attualmente più condiviso nei sistemi di accoglienza è il concetto di interculturalismo, contrapposto a quello di multiculturalismo che, entrato nell’uso comune alla fine degli anni ’80, è oggi accusato di essenzialismo culturale e identitario, con l’effetto paradossale di creare una frammentazione sociale di culture rispettate, ma separate e chiuse nei propri limiti, in sostanza sciolte dall’onere di relazionarsi e ghettizzate da un relativismo culturale acritico e asettico. Emblematica è la politica francese: le culture possono vivere solo nell’ambito del privato famigliare o di gruppi ristretti, dal momento che la laicité non consente alcuna forma di visibilità a segni e simboli che identificano una cultura e una religione. La prospettiva interculturale si presenta invece come autentico superamento della mentalità etnocentrica e apertura alla conoscenza, al contatto e allo scambio tra culture, qualsiasi sia il loro tipo o livello di progresso, che nel confronto reciprocamente si possono modificare e arricchire. W. Baroni, in una prospettiva foucaultiana, ha analizzato (Contro l’intercultura: retoriche e pornografia dell’incontro, 2013) le modalità retoriche con cui si produce la trasfigurazione discorsiva dei migranti in carne e ossa nel simbolismo interculturale, attraverso l’esame di materiali eterogenei, italiani, francesi e inglesi: dalle campagne di comunicazione visiva di governi, ONG e associazioni contro la discriminazione alle opere di scienziati dell’intercultura, sociologi, psicologi, pedagogisti, fino alla letteratura della migrazione. Ne ha ricavato la conclusione che la prospettiva interculturale, nonostante si presenti in opposizione al discorso reazionario centrato sulla minaccia dell’immigrato criminale, in realtà intrattiene con esso una sorta di solidarietà segreta: “Mi sono occupato non dei concetti generali, ma degli apparati metaforici, non delle grandi dichiarazione di principio, ma del modo in cui vengono messe su pagina... una specie di analisi dell’inconscio discorsivo, dell’involontario linguistico. Un lavoro di ingegneria del discorso. I risultati sono stati sconfortanti. Posto che l’altro interculturale in questo momento è il migrante, la grande narrazione dell’intercultura è che l’altro arriva e con l’autoctono si produce uno scambio di segni culturali e attraverso questo scambio si realizza un arricchimento reciproco. Avrei almeno un paio di obiezioni. La prima è che questa storia è bellissima, ma ha un forte sfondo economicistico che la trasforma in una variopinta favola neoliberale: il luogo di scambio per eccellenza nella nostra contemporaneità è il mercato, per cui la grande narrazione dell’intercultura è omologa alla grande narrazione del mercato, unico orizzonte possibile della comunicazione: ci si scambia un bene, il bene interculturale, e attraverso lo scambio si realizza il profitto. Questo è fondato sulla riduzione del valore d’uso delle culture al loro valore di scambio. Operazione silenziosa ma violentissima perché ciò che ha rilevanza è ciò che può essere scambiato per arricchirsi. Uno va bene per l’altro se lo arricchisce. L’altra obiezione che mi provoca inquietudine è: e se nessuno si arricchisce? Il corollario inevitabile è che se l’altro non mi arricchisce allora è estraneo, da rigettare... Dietro il discorso interculturale, c’è la necessità dell’immigrato di doversi ipergiustificare per essere là dove non dovrebbe essere. Ma tecnicamente l’incontro è pura contingenza, accade e non c’è modo di dire prima che è fortunato o sfortunato, il senso verrà ricostruito a posteriori. Se l’incontro deve accadere perché deve arricchire, chi dell’incontro è parte ha un peso mostruoso sulle spalle. L’altro interculturale è oberato dal peso di portare ricchezza, il che getta un’altra luce inquietante sul discorso perché sembra la trascrizione eufemizzante del classico discorso di senso comune sugli immigrati che fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare e quindi contribuiscono all’economia nazionale, pagando anche le nostre pensioni, perché immettono manodopera giovane in uno dei paesi più vecchi d’Europa. Un’altra perplessità: ‘dimmi chi sei, io ti dico chi sono e instauriamo un dialogo’ dice l’intercultura. Però il modello in cui chiedo informazioni all’immigrato è quello dell’interrogatorio giudiziario o di polizia. Il discorso interculturale è una specie di immagine speculare del modello giudiziario. L’onere della prima risposta tocca sempre all’altro, perché io so chi sono io, e questo è il modello dell’interrogatorio. Il lavoro che ho fatto io andava proprio a vedere se ci fossero questi modelli oscuri all’interno del discorso interculturale. È come prendere il paradigma del “clash of civilisations” di Huntington e rovesciarlo trasformando lo scontro di civiltà nell’incontro di civiltà, senza però criticarne minimamente i presupposti: come lo scontro delle civiltà è una pura invenzione, pura poiesi politica che però salda interessi di potere e frammenti di discorso razzista, se tu rovesci semplicemente il discorso sei prigioniero degli stessi presupposti e finisci per pretendere che lo straniero offra giustificazioni della sua presenza. Non ci sono queste giustificazioni, bisogna dire che è una domanda senza senso. Dubito che siano venuti qui per derubarci, ma dubito anche che siano venuti per arricchirci e penso che venire qui sia anche un loro diritto. Dopo di che, nel corso delle cose, qualcuno si dedicherà al crimine, qualcuno metterà in piedi un bell’incontro, ma come è raro il primo penso lo sia anche il secondo. Le condizioni per l’incontro sono la filia o l’eros e già anche quelli sono incontri complicati. L’idea che ci possa essere un incontro istituzionale francamente la trovo abbastanza risibile. Le istituzioni possono fare tanto ma non certo permettere un incontro... possono dare un quadro”.
Anche la prospettiva interculturale nasconde quindi secondo W. Baroni un etnocentrismo di fondo difficile da superare perché non del tutto consapevole, lo stesso che sottolinea L. Jourdan riferendosi alla cooperazione internazionale: “Si parla di produrre uno sviluppo, con poca consapevolezza di quello che è il peso della storia in quei contesti, finendo per non fare altro che esportare dei modelli egemoni nelle periferie del mondo. È l’idea stessa di sviluppo forse da mettere in discussione: banalmente il nostro modello non è esportabile perché ci vorrebbero 18 pianeti; è un modello capitalistico che ha una data di inizio e prima o poi crollerà; è un modello che al centro produce benefici, ma nelle periferie disastri immani”.
Anche G. della Ragione nota che uno strisciante etnocentrismo è presente in chi per lavoro dovrebbe essere portatore di ben altra apertura. Nella sua esperienza di formatrice ha incontrato infermieri, ma soprattutto medici, insofferenti per esempio del fatto che le donne marocchine dopo il parto per 40 giorni non fanno nulla; e questo nonostante venga loro spiegato che, secondo la loro cultura, dopo la nascita del bambino una donna è considerata una principessa, una figura spirituale molto vicina alla divinità, a cui addirittura ci si rivolge per avere delle grazie. Sottolinea l’ostinazione di alcuni medici a seguire le nostre procedure quando con poco sforzo si potrebbe accogliere la cultura dell’altro: “Non andiamo da sole dal ginecologo? E perché loro devono andarci col marito? Per noi lo straniero deve essere una persona sempre pronta a dire sì, se una persona ha dignità non ci va bene”.
Una delle contraddizioni del nostro sistema di accoglienza riguarda gli operatori che lavorano nell’ambito dei CAS organizzati dalle Prefetture. M. Corioni la definisce dissonanza cognitiva e così la spiega: “Tradizionalmente il privato sociale ha sempre lavorato con i Servizi sociali del Comune, quindi dialogava con un interlocutore, a volte favorevole a volte no, ma pur sempre politico; qui il committente è governativo e la Prefettura, che ha il compito di far eseguire i decreti legge, le leggi sull’immigrazione, le procedure che vengono man mano perfezionate per il riconoscimento/accoglienza, si configura come un interlocutore essenzialmente tecnico. Questo cambia molto il modo di concepire il lavoro nel settore dell’accoglienza, perché sacrifica tutta la parte di idealità etica e politica che accompagna il lavoro di molti operatori, attenti al senso del loro lavoro, interessati all’informazione reale rispetto a quello che stiamo vivendo, a quello che vivono le persone che transitano nel Mediterraneo, a quello che stiamo facendo noi come italiani ed europei di fronte alle scelte politiche di respingimento che vengono messe in atto in questi ultimi tempi. Quando entrerà in vigore pienamente il decreto Minniti, noi responsabili di struttura saremo dei pubblici ufficiali e saremo obbligati per esempio a segnalare alla Prefettura chi si rifiuterà di firmare il risultato della commissione territoriale perché negativo, firmando la sua condanna. Fino ad un minuto prima sei stato il suo punto di riferimento per avere aiuto e un secondo dopo il suo boia in fascia tricolore”. È come se in questo tipo di operatore sociale confluissero in modo stridente, riprendendo la famosa terminologia di Bourdieu, la mano sinistra dello Stato, a cui afferiscono educazione, assistenza e sanità, e quella destra, essenzialmente repressiva e ruotante intorno al trinomio polizia, giustizia e carcere. Due ambiti tradizionalmente in rapporto dialettico, ma separati. “A noi – aggiunge S. Bellomia - richiedono un controllo: i ragazzi non possono sostare fuori dalle strutture di accoglienza dopo le 23 e prima delle 7 del mattino, perché ci chiedono una doppia firma, serale e mattutina. A guardare la cosa un po’ più dall’alto, c’è una limitazione nel movimento dal loro paese all’Europa, e poi c’è la limitazione qui. E io mi chiedo: una volta espletate tutte la pratiche burocratiche, nella relazione con loro e con chi è all’esterno sto spostando un pezzettino? Sto almeno trasmettendo un modo di guardare a questa realtà più civile? Finché mi rispondo sì posso continuare ad andare avanti, ad un certo punto mi risponderò no e dovrò decidere che cosa fare”. M. Corioni ribadisce che si tratta pur sempre di un servizio di accoglienza, ma se prevale l’aspetto organizzativo e tecnico di efficienza del servizio, verrà a mancare proprio tutto quello che riguarda l’accoglienza nella sua specificità: “Non può essere che io ti do il letto, la colazione, il pranzo e la paghetta di 2.50 euro e questa è l’accoglienza, non può essere questo solo il mio lavoro. Se finirà per prevalere il fare, gli operatori che hanno motivazioni più alte se ne andranno e rimarranno gli esecutori o, al peggio, quelli che ci godono a fare gli sceriffi”.