Inchiesta: quali risposte per le domande degli adolescenti? - Varchi n. 12
di Gabriella Paganini
Ma chi è questo alieno?
L’attività degli adolescenti può essere sintetizzata principalmente in due compiti: definire la propria identità e trasformare gli affetti e i sentimenti infantili in affetti e sentimenti adulti. Enunciazione che, a fronte della sua semplice essenzialità, racchiude percorsi complessi, irti di insidie e di sfide, di fronte ai quali il mondo degli adulti appare sempre più disorientato, preoccupato, angosciato per la propria inadeguatezza.
Così si moltiplicano saggi e manuali sul tema rivolti a genitori, insegnanti, educatori in generale che vivono con crescente frustrazione il rapporto con l’adolescente, rinunciando a volte a comprenderlo perché percepito sostanzialmente come un alieno; si affina nei Servizi l’attenzione per questa fascia di età con lo scopo di accoglierne il disagio e prevenirne i comportamenti a rischio; si finanziano ricerche da parte degli enti locali per conoscere, dati alla mano, la variegata fisionomia di questo mondo. Nel 2011 ad esempio la Regione Liguria ha condotto un’interessante ricerca, tramite questionari, sugli stili di vita e la salute dei giovani in età scolare, fornendo agli operatori dati statistici su vari aspetti della loro vita, dalla relazione con la famiglia a quella con i pari e con gli insegnanti, dalle pratiche sportive all’uso dell’informatica, dal consumo di sostanze alle abitudini alimentari e sessuali.
Ma da dove nascono queste difficoltà di relazione? Che cos’è avvenuto negli ultimi decenni? Il noto psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet nelle suoi saggi dedicati all’adolescenza, tra cui Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, parla di un vero e proprio cambiamento antropologico che coinvolge ragazzi e adulti e si esprime nella novità dello sguardo che reciprocamente si scambiano: per il genitore, non più normativo, ma affettivo, il bambino non è più un piccolo selvaggio da civilizzare, ma un essere dotato di una natura buona, che non ha bisogno di regole, compiti, castighi, ma di essere spinto ad obbedire per amore e non per paura, capito e aiutato a tirar fuori talenti e abilità con il minimo grado possibile di sofferenza; conseguentemente nella mente dei nostri adolescenti all’adulto in grado di far paura e provocare rimorsi quando si trasgrediscono le regole se ne è sostituito uno che nutre aspettative sulla loro realizzazione di persone belle e socievoli. Per cui se un tempo l’emozione dominante nei ragazzi era il senso di colpa, oggi può essere la vergogna e la sofferenza che deriva dalla paura di non poter realizzare i propri compiti di sviluppo, di non essere all’altezza delle aspettative, di non riuscire a costruire una coppia, una relazione di amicizia, un rapporto soddisfacente col gruppo classe. Questa è probabilmente la fonte di quella fragilità spesso indicata, nuovo stereotipo, come caratteristica oggi dominante. Questa è forse la causa che li spinge a scappare via, magari nella realtà avventurosa dei giochi di ruolo online, o a trovare nell’alcol o in qualche sostanza la spinta a superare insicurezze e timidezze. E, se consideriamo quanto la crisi attuale concorre a inibire nei giovani la spinta verso il futuro, capiamo anche perché si ancorano nel presente, si mostrano svogliati, quasi non valesse la pena impegnarsi. D’altronde, dice G. P. Charmet, perché preoccuparsi di arredare un tunnel senza sbocco?
In questa situazione di cambiamento che, come sempre accade, introduce elementi di positività e nuove problematicità, appare sempre più chiaro che l’unica via di uscita per gli educatori, giacché loro è per definizione la responsabilità di cercare soluzioni, è quella di mettersi in ascolto e impegnarsi a costruire relazioni significative, perché quello che gli adolescenti hanno perso in rispetto degli adulti in quanto tali, per cieca obbedienza e paura di sanzioni, hanno guadagnato in rispetto di quegli adulti che ai loro occhi lo meritano. E guadagnarsi questo rispetto è una delle sfide più difficili ed entusiasmanti come hanno capito molti operatori che quotidianamente si occupano di loro: ne abbiamo incontrati alcuni che operano nel Centro Giovani e in strutture educative frequentate da ragazzi appartenenti a fasce socialmente svantaggiate, come il Centro Emanuele Levrero o il Centro di Educazione al Lavoro Torretta e l’Opera Don Bosco. Pur nella diversità dei compiti, degli obiettivi e degli strumenti, emergono riflessioni comuni e buone pratiche che rivelano quanto spazio educativo ci sia ancora per gli adulti che non vogliano abdicare al loro compito che è essenzialmente quello di rendere pensabile il futuro e abitabile la speranza.
Aiutare nello studio, insegnare un lavoro.... ma non solo
Antonietta Prato, ex insegnante di scuola materna, è fondatrice e presidentessa del Centro Emanuele Levrero, nato nel 2005 come “Progetto Compiti Insieme” e sviluppatosi presso la chiesa di S. Maria delle Grazie di Sampierdarena, una comunità sensibile alle emergenze del territorio e delle fasce più deboli. Si tratta di una Associazione di volontariato che si avvale dell’opera di insegnanti in pensione, di madri con un titolo di studio, di ragazzi per il cui impegno sono riconosciuti dei crediti e ospita un gruppo di 19 ragazzi delle elementari e uno di altrettanti studenti delle medie. È relativamente a questi ultimi che l’attività si è nel corso degli anni ampliata: l’aiuto nello studio, che resta comunque prioritario, è diventato un modo per prendersi cura globalmente dei ragazzi e affrontare i più urgenti problemi legati alla loro crescita. “Abbiamo ragazzi prevalentemente stranieri e purtroppo pochi italiani – nota con rammarico A. Prato - perché le famiglie non li mandano proprio per evitare il contatto, che evidentemente mal sopportano a scuola perché costrette; è comunque bello perché c’è integrazione di vita, di cultura tra etnie diverse, provenienti da Bolivia, Senegal, Columbia, Ecuador, Perù... Molti hanno alle spalle situazioni famigliari pesanti, i cui ingredienti più comuni sono padri alcolisti e violenti, rapporti problematici con il compagno della madre, madri sfiancate dal lavoro e stanche di dover sostenere da sole la situazione economica ed educativa. I bisogni più grandi che esprimono questi adolescenti sono proprio di natura affettiva, per questo cerchiamo di creare un clima famigliare, si fanno i compiti, poi un po’ di merenda... le loro famiglie complicate non li lasciano sereni, pensano solo a lavorare confondendo il benessere economico con il benessere tout court e spesso li controllano solo con il cellulare”. Racconta il caso di un ragazzino che sia a scuola che al centro rideva continuamente per nascondere una storia famigliare difficile e poi alternava periodi di bulimia ad altri in cui non voleva toccare cibo. “I genitori non si facevano vedere né qui né a scuola e un giorno ho chiamato il padre, che in realtà era il compagno della madre, e con la scusa del rifiuto del cibo ho tentato di parlare con lui... e ho proprio capito che il ragazzino era nella famiglia sbagliata, dove tutti raccontavano bugie... La madre poi l’ha trasferito in un’altra scuola, strappandolo agli amici che si era fatto qui, e due anni dopo è venuto da me a chiedere aiuto perché i suoi si trasferivano nel sud Italia e lui non voleva seguirli... Lo hanno trascinato a forza, ma i genitori di lui non lo volevano, così è andato in Ecuador, ma anche lì non si è trovato bene e così è finito in un collegio. E perché questo allontanamento? Per sottrarlo alle conseguenze di una situazione terribile in cui si era trovato coinvolto perché il fratello più grande aveva usato il suo zaino per portare della droga a scuola: ne era nato un putiferio, con l’intervento dei carabinieri... storie pesantissime. Certo che faceva il pagliaccio, ma in realtà era una reazione isterica. E il fatto che si tenesse tutto dentro per amore della madre ci ha impedito di aiutarlo”.
Di fronte a storie simili, e tutt’altro che rare, è apparso evidente come le difficoltà scolastiche non siano altro che la punta di un iceberg; così al sostegno scolastico originario si è affiancato un “Progetto adolescenza”, corredato di uno sportello di recentissima apertura, e un “Progetto genitori” che prevede incontri di gruppo mensili sulla genitorialità. “Facciamo parte dei Laboratori Educativi Territoriali, collaboriamo con il Distretto, con la Asl e con le scuole del territorio – continua A. Prato – per creare una rete il più possibile efficace intorno ai ragazzi. E poi attraverso i compiti cerchiamo anche di agganciarli per un lavoro preventivo più ampio: per esempio iscriviamo ai compiti i ragazzi che si impegnano a frequentare un giorno alla settimana il gruppo “Parliamone insieme”... sono molto rigida su questo. E poi abbiamo da due anni il Progetto genitori con la dott.ssa Zanone”.
Usare un intervento specifico come base per un lavoro educativo profondo è lo stesso intento di chi opera al Centro di Educazione al Lavoro “La Torretta” a Cornigliano. Distribuiti sui tre piani della torretta della cinquecentesca villa Spinola Narisano, in un ambiente accogliente e vissuto, si trovano i laboratori artigianali di ceramica, cucito, cartonnage, falegnameria e lavorazione del ferro, che caratterizzano l’offerta di questo che è uno dei cinque CEL della città, tutti facenti capo all’Assessorato allo sviluppo economico del Comune. Il centro è un Servizio di secondo livello, che accoglie un massimo di 19 ragazzi tra i 15 e i 20 anni precedentemente passati da qualche Servizio che li segue: può essere il Distretto tramite un’assistente sociale, la scuola, il Centro Giovani, l’Ufficio cittadini senza territorio. La dott.ssa Sabrina Canepa, coordinatrice del centro, precisa subito che l’aspetto educativo è il perno del progetto: “Non si tratta solo di stare accanto e accompagnare, ma di educare nel senso etimologico della parola, di ‘tirar fuori’. Siamo un servizio di educazione e orientamento e cerchiamo di dare una risposta utile ai bisogni di chi viene da noi proprio mettendo insieme i due ambiti: da un lato l’accompagnamento del ragazzo ad avere un’attenzione al suo sistema di riferimento famigliare ed affettivo, emotivo, dall’altro l’utilizzo di tutte le tecniche di addestramento attraverso il colloquio motivazionale e di orientamento. Il progetto educativo è centrato sul ragazzo e attraverso i laboratori manuali andiamo a coprire tutta una serie di fattori, primo fra tutti il miglioramento dell’autostima. Ricordiamo che sono ragazzi dal vissuto scolastico estremamente negativo e comunque con esperienze di scolarizzazione bassa, tanto che, quando arrivano alle superiori, l’insegnante è per loro un extraterrestre letteralmente incomprensibile. Qui si cerca di fare quello che non si fa a scuola: mettere il ragazzo nella condizione di sbagliare e poi però di recuperare, di fare l’esperienza dell’errore e poi del successo. Magari è un successo un po’ semplice... Noi abbiamo cercato la collaborazione di insegnanti disponibili per fare in modo che alcuni passaggi didattici potessero essere mutuati attraverso il “saper fare”, perché comunque le tre competenze ‘sapere’, ‘saper fare’ e ‘saper essere’ devono avere tutte una stessa organizzazione. Attraverso il ‘saper fare’ i ragazzi hanno comunque all’inizio una difficoltà, perché devono prendere le misure, tagliare le cose nel modo giusto, fare proporzioni, non possono improvvisare. Se poi riescono a fare qualcosa che ha un significato e un riconoscimento, che può essere il mercatino artigianale da cui ricavano un po’ di guadagno, ben venga. La cosa fondamentale è che imparano a essere misurati sul loro progetto: cerchiamo di tradurre la meritocrazia nel “massimo che ciascuno può fare”, con i suoi ritmi, le sue capacità, puntando anche tanto sull’aspetto cooperativo, sull’importanza del gruppo. Salta in un certo senso il discorso tipico della scuola ‘non è giusto, a me hai dato questo e a lui di più’”. L’esito di questi corsi può essere un’occupazione, un contratto di apprendistato, il servizio civile, oppure la ripresa dello studio come nei casi di chi si iscrive al serale, ma per gli operatori del centro l’aspetto fondamentale è quello formativo; dare la possibilità ad un ragazzo che ha collezionato fallimenti di spendere ancora un po’ di tempo in una situazione formativa è secondo loro soprattutto un investimento sul futuro, perché lavorare con gli adolescenti di oggi è lavorare con gli adulti di domani. Purtroppo non è facile reinserire questi ragazzi nel circuito formativo delineato dalla riforma scolastica, perché prevede corsi triennali, gestiti dalla Provincia, con moltissime ore di cultura generale e quindi li fa ripiombare nella stessa situazione frustrante che li aveva allontanati dalla scuola; analogo problema presentano i corsi professionali gestiti dalla Regione e aperti a tutti coloro che hanno raggiunto la maggiore età, perché prevedono un test di ingresso di tipo logico-matematico per il quale ovviamente è maggiormente attrezzato un ragazzo scolarizzato.
Anche Don Maurizio Verlezza, da poco giunto da Roma a dirigere l’Opera Don Bosco di Sampierdarena, da un ventennio si occupa di adolescenza disagiata, di giovani che provengono da un ceto popolare basso e spesso sono reduci da abbandoni scolastici. Devono poter lavorare presto e non possono permettersi percorsi formativi troppo lunghi, per cui al Centro di formazione professionale Don Bosco trovano la possibilità di soddisfare questo bisogno, ma al tempo stesso anche l’occasione per ridisegnare un’ immagine fallimentare di sé. “I nostri ragazzi sono italiani per un 60%, gli altri sono stranieri, di varie nazionalità: il bisogno più immediato è economico, ma quello più profondo è affettivo, è quello di essere accolti. Riguardo a questo abbiamo percorsi sia individuali che comunitari per farli crescere in educazione e affettività”. Così accanto a corsi di formazione nell’ambito soprattutto informatico ed elettromeccanico, che si avvalgono di un efficace dialogo con il mondo imprenditoriale, come accade ad esempio con la Fiat Chrysler, dalla cui collaborazione sono nati avanzati laboratori di diagnostica sulle automobili, vengono offerte molte attività educative che vanno dallo sport, alla musica, all’educazione teatrale. Il tutto inserito, come ci spiega Don M. Verlezza, in un contesto che aspira ad essere una comunità educante, con valori condivisi e capace di coinvolgere anche le famiglie: “ Tre sono i nostri pilastri: ragione, religione e amorevolezza. La prima tesa a valorizzare le potenzialità migliori per un percorso intelligente; la seconda è l’orizzonte valoriale in cui ci muoviamo, ma va precisato che la parola religione va intesa in senso alto, filosofico, come ricerca di possibili risposte alle grandi domande di senso; la terza come accoglienza incondizionata che diventa esempio vivente di come non ci sia gioia più grande di quella che consiste nel mettersi a disposizione degli altri. Infatti i nostri percorsi comprendono anche di rendere ad altri quello che si è ricevuto; e così i nostri giovani diventano per esempio animatori ed educatori degli altri nei campi estivi o nei campi scuola”.
Tre esempi diversi, ma con una convinzione comune: il lavoro con e sull’adolescente è fallimentare se ci si limita a rispondere ad un bisogno circoscritto e non si è in grado entrare in relazione con lui comprendendolo nella sua totalità di emozioni, desideri, bisogni, difficoltà e soprattutto potenzialità. E va notato con rammarico che proprio la scuola, istituzione formativa ed educativa per eccellenza, sembra essere particolarmente in difficoltà rispetto all’identificazione dei suoi compiti e degli strumenti per realizzarli, e non tanto per cattiva volontà degli insegnanti, peraltro oggetto negli ultimi decenni di una continua mortificazione e delegittimazione. Pesa la progressiva burocratizzazione della struttura; la parcellizzazione delle abilità, legata a quella delle discipline ma riconducibile sostanzialmente all’omologante ambito logico-matematico; la mancanza di un lavoro di équipe che permetta all’insegnante di non sentirsi solo nell’affrontare le mille difficoltà e sfide quotidiane e nell’amministrare le proprie reazioni, inestricabilmente legate al proprio vissuto; l’ossessione valutativa ridotta a quantificazione di gradi di competenze, che scatena ansie di prestazione negli studenti più strutturati e atteggiamenti rinunciatari fino all’abbandono in quelli più fragili o meno motivati, ed è perfettamente speculare all’ossessione per lo svolgimento quantitativo dei programmi. Nel convegno Adolescenze: dentro la rete del Servizio Pubblico, organizzato nel novembre del 2011 dalla Asl 3, alcune operatrici del Centro Giovani della macroarea Centro-levante-val Bisagno significativamente affermavano: “È importante offrire ai giovani un ascolto “valorizzante”, uno spazio personale dove consentirsi di essere confusi, dove darsi la possibilità di capire chi si voglia essere, e prendersi il tempo che serve per sperimentarsi in ruoli diversi inventati da loro. Dare uno spazio al giovane gli permette di fare una pausa, riuscire ad ascoltarsi, e pensare di permettersi di avere possibilità di scelte”. Ma come può essere compatibile questo con i tempi della scuola, fatti di scadenze, corse contro il tempo per preparare verifiche, recuperare insufficienze, frequentare ripetizioni private o corsi di recupero pomeridiani, dove ad essere recuperata non è mai la motivazione, la curiosità, la gioia dell’apprendere, l’emozione di un incontro con adulti realizzati nel loro lavoro, ma sempre e solo quel livello di “conoscenze, competenze e abilità” rispetto alle quali spesso i ragazzi si sentono estranei e che è invece l’argomento più gettonato nei discorsi tra insegnanti, che avvengano nei luoghi deputati o casualmente nei corridoi? Consentire i giusti tempi nel percorso formativo è un elemento acquisito ad esempio nei tirocini in azienda previsti dai Centri di educazione al Lavoro: “I ragazzi – spiega S. Canepa – fanno esperienza in azienda su tre livelli. Il primo riguarda competenze minime, come la puntualità nelle consegne, il rispetto degli orari; il secondo il riconoscimento dei ruoli e del contesto; nel terzo il ragazzo può avere una sua mansione e un orario di lavoro quasi identico a quello richiesto dal contratto”. E conclude con una considerazione che fa riflettere: “A parità di competenze e attitudini individuali, un ragazzo intercettato da un servizio educativo è più fortunato rispetto ad uno che resta nel circuito scolastico, magari barcamenandosi in una mediocrità di risultati che lo rende sostanzialmente “invisibile”: ha infatti l’occasione di fare un lavoro su di sé e raggiungere un buon livello di consapevolezza, che nella scuola è molto più difficile”.
Adolescenti e adulti: polli, aquile... e altri sguardi
“Per i giovani – sottolinea Don M. Verlezza – è soprattutto pesante la noia di non vedersi protagonisti della vita; hanno anche una grande rabbia perché sentono che non vengono intercettati i loro bisogni sul futuro. Vedono un mondo adulto smarrito, che non sa consegnare loro un domani. Negli adulti soffrono soprattutto il fatto che secondo loro sono più capaci a presentare regole, magari senza poi rispettarle, piuttosto che accogliere i loro bisogni... soffrono anche rispetto al mondo della politica, sentito come luogo delle tante cose dette e non fatte, della corruzione... sentono il disorientamento che deriva dalla mancanza di punti di riferimento... I giovani non sono il domani della storia, sono l’oggi, sono già protagonisti e nel momento in cui si intercetta questo bisogno di protagonismo, escono fuori con le loro risorse. Il problema è che ci vogliono adulti ed educatori che credano in loro”. Don M. Verlezza ricorda la straordinaria risposta dei giovani durante l’ultima alluvione e racconta come con lo stesso slancio rispondono quando tornano dai soggiorni nelle missioni in Africa, in Asia o in America Latina: “Sono viaggi educativi per aiutarli ad avere uno sguardo sul mondo in grado di coglierne la bellezza e la problematicità, a considerare il mondo una casa comune e non uno spazio ristretto intorno al proprio ombelico. Quando tornano hanno uno sguardo diverso e la prima cosa che fanno è rimboccarsi le maniche e organizzare iniziative, per esempio raccogliere fondi per l’Africa”.
Dipende molto da quanto gli adulti investono su di loro, dall’immagine che ne hanno: “Si possono immaginare i giovani – continua Don M. Verlezza – come polli che beccano quello che c’è sotto le loro zampe oppure come aquile che sanno volare in alto. Dipende da quello che si propone loro: se tu metti un ragazzo in una gabbia a beccare il mangime (gabbia che può essere lo stadio o addirittura la scuola, quando è intesa come luogo in cui ti infilo in testa cose che devi conoscere e sei un bravo ragazzo quando me le restituisci, altrimenti ti espello), allora non lo rendo protagonista, ma passivo spettatore. Sono gli adulti che fanno la differenza... Ricordo a questo proposito una ricerca condotta dal Borgo Ragazzi Don Bosco di Roma, un’istituzione nata nel ’48 per occuparsi dei ragazzi di strada (allora c’era il fenomeno degli sciuscià), intitolata significativamente Il minore a(lato), giocando sul bisticcio tra “a lato” perché messo da parte in quanto non interessante politicamente dal momento che non vota, e “alato” perché dotato anche di ali”.
È proprio sul terreno della passività che anche S. Canepa si esprime, riscontrandovi la principale differenza tra gli adolescenti di oggi e quelli di vent’anni fa: “Nell’ultimo ventennio è stato fatto un bel lavoro per cercare di annientare l’aspetto vitale dei giovani: non ne faccio una questione politica, ma sociologica. Quando ho iniziato a lavorare, tra i ragazzi che frequentavano la scuola, magari il liceo, con alle spalle famiglie organizzate, e quelli che seguivamo noi c’era un abisso. I nostri ragazzi erano più arrabbiati, e quindi più attivi, che poi significa più propensi a delinquere... cercavano di agire, chi picchiava, chi scassinava, chi rubava, chi scappava di casa... e il nostro lavoro era di contenimento da un lato e dall’altro la sfida era di scommettere sulla possibilità di farli aggrappare a qualcosa di solido. Oggi c’è una sorta di omologazione, non c’è più tanta differenza tra un ragazzo del liceo Fermi e uno della Torretta: entrambi non si fidano del mondo degli adulti e condividono una analoga pochezza culturale, un analogo appiattimento su valori bassissimi, una mancanza di senso di appartenenza che non sia la squadra di calcio e una stessa percezione della impossibilità di inserimento, attraverso il lavoro, nel sistema adulto... il ragazzo medio, di 16-17-18 anni, con una situazione culturale medio-bassa, è fermo su un muretto a farsi le canne, ascoltare rap o musica latinoamericana, o giocare col cellulare; anche nell’agire la sessualità si nota questa passività, per esempio nella rinuncia ai riti del corteggiamento e della seduzione”. Questo, precisa, è soprattutto vero per i ragazzi italiani, che sono i più sfiduciati, perché gli stranieri, in particolare gli albanesi, pensano solo al lavoro e ai bisogni primari, e quindi hanno piuttosto bisogno di recuperare la loro gioventù.
A questa omologazione contribuisce anche l’ibridazione tecnologica, che ha modificato percezioni, attività, relazioni: “Con Internet – continua S. Canepa – puoi sapere tutto in un momento... e non sai nulla perché la risposta resta lì, nel mezzo tecnico, e non viene memorizzata”. Inoltre la comunicazione online con i pari, che già a quindici anni è attività quotidiana, come dimostrano i dati dell’Inchiesta regionale sopra citata, velocizzando i contatti avalla quella logica del “tutto e subito” che contribuisce ad assottigliare progressivamente la capacità di sopportare frustrazioni, riducendo lo spazio tra desiderio e realtà la cui esistenza è il presupposto fondamentale dello sviluppo psichico fin dalla prima infanzia. A questo proposito Cinzia Modafferi, psicologa con esperienza di lavoro in Consultorio e al Centro Giovani della Fiumara, aggiunge: “La sensazione che ho io è che gli adolescenti di oggi siano uguali e diversi rispetto a quello che eravamo noi, perché le emozioni, la noia, il mettersi a rischio, anche se in modo diverso, le manifestazioni di disagio... le montagne russe sono sempre quelle. La diversità di modalità che si è verificata negli ultimi 15 anni consiste nel fatto che noi non avevamo mezzi come Internet a disposizione, con il corredo di realtà virtuali, giochi, nuove patologie di dipendenza, i vari blog... Mentre un tempo ci si incontrava fuori, e la cosa richiedeva più tempo e investimento di energie, ora ci si può raggruppare più facilmente in base ad affinità: ci sono i blog per incitare all’anoressia, quelli destinati a chi vuole tagliarsi o tentare il suicidio e questo dà una legittimazione, e allora diventa complicato andare a cercare aiuto, perché non ti sembra di avere un disagio. E poi 15 anni fa era tutto più lento; anche litigare, lasciare il fidanzato richiedeva tempi da dedicare all’incontro che consentivano anche un po’ di spazio per la riflessione; ora invece tutto avviene sull’onda dell’emozione forte del momento.. un sms e via, tutto più semplice, più veloce, ma meno pensato”.
Accanto agli sguardi che depotenziano ce ne sono altri, schizofrenici, che disorientano e indignano i destinatari; basti pensare all’oscillazione tra le opposte retoriche, entrambe insopportabili, che si sono recentemente confrontate: quella degli “angeli del fango”, imperante per un paio di settimane su tutti i media, e quella dei “debosciati, maleducati-che-non-lasciano-il-posto-a-sedere-sugli-autobus”, momentaneamente oscurata dalla prima e poi risorta prontamente dalle sue ceneri all’impallidire dell’angosciante calamità cittadina. E si pensi ai molteplici messaggi doppi o contraddittori che accompagnano molte relazioni educative, tra cui Miguel Benasayag, nel suo intervento ad un convegno organizzato nel 2007 dalla Provincia di Lucca dal titolo La fragilità dei giovani nella società dei consumi, ne indica due significativi: “L’ideologia dell’utilitarismo comunica ai giovani l’esigenza di “rendersi utili”, acquisendo competenze che aiutino ad avere un posto in questo mondo; questo messaggio contiene un vero e proprio messaggio subliminale, cioè che il giovane non ha un posto in questo mondo, e che forse potrà ottenerlo se riuscirà a rendersi utile… una vera e propria minaccia quindi, quasi un ricatto. È come dire “se ami la musica va bene… ma fai sì che tu possa guadagnare da questa passione!” [...] C’è qualcosa nel modello sociale in cui viviamo che ci indica che il modello della crescita non è più sostenibile, perché non è elastico, non può includere tutti. I giovani sanno che non ci sarà posto per tutti… ed i genitori pieni di “amore”, insegnano ai loro figli ad essere “lupi” per conquistarsi il loro posto nel mondo. Quando un bambino va male ci si occupa di lui perché non ha abbastanza competenze, ma quando va troppo bene, diventando magari un lupo, non pensiamo che ci sia un problema”.
Comunque, oggi come ieri, i ragazzi, al di là della diffidenza che manifestano, chiedono agli adulti stima, affetto, considerazione; chiedono di essere valorizzati per quello che sono e non per la qualità delle loro prestazioni. Così C. Modafferi racconta l’ansia di prestazione che ha riscontrato in alcuni giovani pazienti e che a volte sfocia in attacchi di panico anche in giovanissima età: “Sono vite pienamente organizzate, in cui non è consentito sbagliare, gabbie dorate circondate da aspettative molto alte... vite che dalle elementari alle medie sono chiuse tra i tempi della scuola, quelli di uno sport agonistico, senza gioco libero, noia... sembri essere nella mente del genitore per quello che fai e non per quello che sei... manca il respiro... È una vita organizzata che ho notato anche nei bambini, in Consultorio, soprattutto d’estate quando li vedo arrivare in terapia sui gomiti... e quando gli chiedo che cosa hanno fatto nella giornata cominciano a raccontare ed elencano il nuoto, il basket, ecc., tutto incastrato per non lasciare un vuoto. A volte lo dicono che avrebbero volentieri giocato un po’ liberamente al campetto, esprimono il bisogno di quel tempo non strutturato sempre più carente in un mondo frenetico”.
La ricerca del contatto: alcune istruzioni per l'uso
Nella pratica quotidiana di chi opera con adolescenti emergono alcune stelle polari ricorrenti, seguire le quali evidentemente si è rivelato efficace. Al primo posto la relazione, basata sull’accoglienza incondizionata e sull’ascolto. Detto così sembra semplice, ma la cosa difficile è proprio l’accoglienza incondizionata; come sottolineano sia Don M. Verlezza che Lia Finzi, medico scolastico e psicologa operante al Centro Giovani del centro, significa ritenere che ogni ragazzo è prezioso in quanto semplicemente esiste. La difficoltà per l’adulto sta proprio nel non colonizzare lo spazio dell’altro con i propri pregiudizi, convinzioni, valori, aspettative, prepotenze inconsapevoli, viziate magari da spiacevoli risonanze che le sfide degli adolescenti provocano nel profondo di chi non ha fatto efficacemente i conti con la propria adolescenza. La capacità di ascoltare e stabilire un contatto non sempre è una tecnica che si può imparare a tavolino; è un’arte e, come tutte le arti, richiede anche una predisposizione. C. Modafferi spiega: “La prima difficoltà che noi terapeuti dobbiamo affrontare è abbattere la diffidenza del ragazzo che si presenta ai Servizi... Spesso arrivano con il cappello in testa e poi si scoprono. Ricordo una volta un ragazzo che, dopo essere rimasto col capo chinato e nascosto sotto il cappello, ad un certo punto ha alzato la testa, si è tolto il cappello e mi ha guardato. Sono momenti intensi in cui capisci che è successo qualcosa, anche se magari non sai perché... forse l’unico metodo che posso indicare è l’ascolto empatico, senza giudicare, senza voler portare da nessuna parte, senza fare il poliziotto; avere le antenne e agganciarsi a qualsiasi cosa permetta una comunicazione. A volte basta un niente e, se sentono che ci sei, si aprono e non sai neanche perché... magari perché hai mostrato un interesse autentico per le cose che portano, come la metrica del rap: te la spiegano e tu devi riportarlo a qualcosa che conosci, e nello scambio sentono quanto sei autentico. E poi è essenziale avere curiosità per il loro mondo: io ad esempio sono andata a vedere il mondo dei giochi di ruolo che li appassionano e ho capito che se il mondo reale non ti piace lì trovi un sostituto, un vissuto a cui aggrapparti. Se l’adolescente vede la sincerità, la voglia di mettersi in ascolto, e anche la fatica perché spesso non è facile trovare canali di comunicazione, nella mia esperienza ho notato che il canale simbolico lo trovano loro: può essere il rap o le scritte dei writer, il disegno... per esempio non è che io sapessi gran che delle canzoni rap, ma se hai voglia di “sporcarti” con quello che non conosci, l’aggancio si trova. Con la famiglia invece è molto più difficile”.
- Prato ad esempio ha sperimentato sul campo l'inutilità dei pistolotti moralistici sull'uso di fumo e droghe: “Quest'anno, invece di parlare delle droghe e della legalità, che sono i soliti discorsi, abbiamo coinvolto un medico del SeRT di Voltri che ha fatto un discorso a questi ragazzi senza mettere paura, ma parlando del funzionamento del cervello e dei danni che si possono arrecare; faremo poi qualcosa sull'affettività con le psicologhe e poi sulle dipendenze che ci vengono dalla moda e dalla pubblicità con la dott.ssa Zanone. Affronteremo infine anche il tema del bullismo e della violenza, ma sempre facendo riferimento al nostro cervello”. È una modalità che risulta efficace anche secondo L. Finzi che commenta: “Oggi secondo me i ragazzi sono molto più disposti ad ascoltare un adulto competente per saperne di più, hanno un forte bisogno di conoscenze; chiedono, perché hanno captato che ci sono rischi, ma non li sanno quantificare. Per esempio stamattina in una classe è uscito il discorso delle malattie sessualmente trasmesse, che è un'emergenza. Ho capito che molti di loro vanno su un sito che si chiama Malattie imbarazzanti: lo scopo del sito è di aiutare a capire come si manifestano le malattie che colpiscono l’apparato genitale o che comunque si trasmettono attraverso l’attività sessuale e aiutare a fare una autodiagnosi casalinga. Loro conoscevano tutte le malattie sessualmente trasmesse, sapevano ad esempio che la sifilide si manifesta con ulcere, cosa che mi ha stupito perché, fino all'anno scorso, tutte le volte che chiedevo se sapessero che cos'è un'ulcera non lo sapeva nessuno... e mi hanno tempestata di domande, con la ricorrente premessa “lei che è medico, che ha il segreto professionale...” per cercare conferme. Non vanno invece dal medico di famiglia, perché temono che parli con i genitori e non rispetti la deontologia professionale. Anche sull'alcol, il cui consumo risulta in aumento, restano colpiti quando dico che il loro organo disintossicante non è ancora formato e quindi intossicarlo quando non è ancora formato significa avere cellule in meno da adulti. Se dici queste cose ti ascoltano, così come quando spiego che farsi troppe canne fa crescere con meno capacità di concentrazione, perché anche il cervello ha bisogno di crescere... sono curiosi di sapere”.
Anche per L. Finzi quello che funziona con i ragazzi è una comunicazione autentica: “Devono sentire che l'altro è presente per loro, che capisce le difficoltà... Di fronte a chi viene spontaneamente e non riesce a parlare io magari inizio con qualche domanda, ma se persiste la difficoltà provo a spostare il discorso su qualcos’altro; e poi... ti devi mettere dalla loro parte... anch'io alla loro età avrei avuto difficoltà. Devono sentirsi rispettati per quello che sono e il Centro Giovani, nato sull'emergenza della prevenzione dell'AIDS, si è poi affinato nella prevenzione del disagio adolescenziale nella sua fisiologia; così si è progressivamente organizzato e aggiornato per accogliere ciascuno, ascoltandolo nella sua unicità e aiutandolo a fare un suo percorso con tutte le professionalità disponibili per questo nei vari ambiti”. A questo proposito così Viviana Napoli, psicologa e Direttrice della Struttura Complessa Assistenza Consultoriale, spiega il lavoro di rete: “Nonostante le risorse non siano aumentate, abbiamo una collaborazione con il SeRT e con la Salute Mentale, per cui possiamo avvalerci del contributo di psicologi e psichiatri che vengono nel nostro Servizio per condividere dei percorsi, per affrontare casi complessi in un modo più soft, maggiormente indicato per la specificità dell'età adolescenziale”. Purtroppo i tagli alle risorse hanno imposto una razionalizzazione che concentrerà il servizio nell'unico Centro Giovani del centro, chiudendo quello della Fiumara: “Abbiamo poco personale. Il dott. Ferraro, storico ginecologo della Fiumara, è andato in pensione, e come lui altre figure storiche, per cui bisogna pensare al futuro. Abbiamo così tentato di fare un lavoro di collegamento tra l'attività che svolgono i consultori, anche nell'ambito dell'educazione alla salute, e quella del Centro Giovani per evitare dispersive parcellizzazioni”. Sembra che concentrare le forze in una sede sia necessario per mantenere la possibilità di accedere liberamente tutti i giorni; la cosa è essenziale perché, evitando l'obbligo di prenotazione o altre lungaggini burocratiche nel percorso di accesso, si intercetta efficacemente la modalità tipicamente adolescenziale con cui si affacciano i bisogni e che poggia sull'onda delle emozioni forti, dell'impazienza, dell'emergenza. E sempre per sintonizzarsi con i ragazzi anche riguardo alle modalità di comunicazione il Centro Giovani ha aperto negli scorsi anni una pagina Facebook che permette anche agli operatori di tenersi costantemente aggiornati sui bisogni e sulle domande più pressanti. V. Napoli crede molto nel potenziamento di questo strumento e L. Finzi ne spiega le potenzialità: “L'uso di Facebook e della posta elettronica va incrementato perché arrivano sempre più spesso domande dettate dall'emergenza, per esempio sulla pillola del giorno dopo. È una modalità che sta aumentando: chiedere aiuto quando si ha l'acqua alla gola anziché informarsi preventivamente. E la risposta deve essere rapida. Mi ha colpito una volta una mail arrivata dal Perù da parte di una ragazza che era stata a Genova, ci aveva conosciuto e voleva informazioni appunto sulla pillola del giorno dopo. Bisogna anche incrementare l'uso dei messaggi anonimi... La maggior parte delle richieste sono di carattere ginecologico, ma ci sono anche alcuni maschi che chiedono di uno psicologo... a volte usano parole spia che fanno capire che sono disturbati. Purtroppo siamo in pochi a leggere questi messaggi, un po' per carenza di personale e un po' perché non tutti siamo sensibili allo stesso modo. Nei giorni di festa ad esempio bisognerebbe dare a turno la disponibilità di aprire il sito e rispondere; è un canale di emergenza e spesso è proprio la festa il momento dell'emergenza, perché vi si concentrano i comportamenti a rischio”.
La necessità di una comunicazione autentica e di un efficace ascolto è sottolineata anche da Cristina Cavicchia, peraltro nel contesto particolarmente difficile della devianza, in quanto assistente sociale dell’USSM, l’Ufficio Servizio Sociale Minorenni del Dipartimento della Giustizia minorile. Così scrive negli atti del convegno già citato: “In generale il primo arduo compito da affrontare è quello di riuscire ad entrare in relazione, pur in un contesto difficile che rischia di falsificare il rapporto perché può suscitare eccessiva compiacenza o, al contrario, indurre a manifestare comportamenti provocatori o mostrare un’ostinata chiusura che rende gli adolescenti inaccessibili. Abbiamo notato come questo aspetto incida inevitabilmente sulla relazione soprattutto nelle fasi iniziali o nei casi in cui la presa in carico è di breve durata. Tuttavia, col tempo, il quadro iniziale cambia e in molti casi finisce per prevalere altro. Le maschere cadono, la diffidenza, almeno in buona parte, si scioglie perché sono più forti da parte dei ragazzi l’esigenza di relazioni autentiche e il loro bisogno di aiuto. Gli adolescenti anche silenti e distaccati si esprimono comunque e sta a noi adulti tollerare e ripensare insieme gli inevitabili momenti di impasse, le bugie, i silenzi e cercare invece di comprendere le loro molteplici forme di comunicazione al di là delle parole... In alcuni casi è quindi particolarmente importante che l’operatore non solo ci sia, ma che sappia anche resistere alle provocazioni, alle svalutazioni, agli “attacchi” distruttivi dell’adolescente. L’operatore si sente spesso come una sorta di acrobata, sempre sul filo e in bilico, sospeso tra il rischio di cadere nell’onnipotenza e quello di cedere al senso di impotenza, rifugiandosi in prestazioni standardizzate magari formalmente corrette ma prive di personalizzazione, un po’ senz’anima e questo non funziona mai perché gli adolescenti lo sentono a pelle... Per entrare in contatto con gli adolescenti è particolarmente importante riuscire ad acquisire e mantenere una sorta di capacità negativa, saper stare nell’incertezza, accettare di non capire e saper attendere senza perdere la speranza”.
Conclude sinteticamente C. Cavicchia: “Gli adolescenti a volte esplicitamente, ma nella maggior parte dei casi in modo implicito ed ermetico, chiedono di: essere visti al di là dell’apparenza ed ascoltati al di là delle parole; essere compresi e rispettati nella loro individualità; essere sorpresi e in qualche modo “stanati”; stare in relazione con adulti che sappiano esserci e resistere. Noi operatori nell’incontro con gli adolescenti entriamo in contatto e ci misuriamo con: atteggiamenti rinunciatari e apatici o al contrario provocatori ed irritanti; la rabbia e la distruttività; il caos e lo scompiglio; la noia, la solitudine e l'inevitabile dolore della crescita; ma anche con una creatività non scontata che quando riesce ad emergere ci stupisce sempre”. Sono riflessioni che emergono da un contesto educativo particolarmente difficile, ma a ben vedere potrebbero adattarsi perfettamente a contesti meno connotati.
I modi per dirlo... quando verbalizzare è difficile
“Quando un ragazzo viene a parlare - osserva L. Finzi - raramente ha un linguaggio adeguato. Quando chiedo dei sogni, cosa su cui lavoro molto, sembra che io parli da un altro pianeta e mi chiedono se significhino qualcosa. Hanno difficoltà a esprimere desideri che vadano al di là dell'estetica: non vanno al di là del “bel ragazzo” o della “bella ragazza”. G. P. Charmet ha parlato del culto per la forma bella più che per il contenuto, e in effetti con i sogni si va sul contenuto e loro hanno difficoltà”.
Forse aiuta a capire questo aspetto la differenza che M. Benasayag individua tra voglia e desiderio: la prima è “normalizzata”, nel senso che sono gli altri a dirci di che cosa dobbiamo avere voglia; il desiderio invece richiede un vero e proprio lavoro, perché trascende la sfera individuale e si costruisce in relazione con gli altri, con la situazione, con l'epoca storica, con la complessità della realtà (M. Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2004). E se spesso la difficoltà di relazione nasce dall’inadeguatezza dell’adulto o dell’agenzia educativa, scuola o famiglia che sia, non di rado investe le relazioni tra i pari e si manifesta in diverse modalità. Una di queste è rappresentata dalla precocità in aumento delle esperienze sessuali di cui parlano tutti gli operatori incontrati e che a volte sfociano in altrettanto precoci gravidanze. L'inchiesta regionale quantifica nel 26% la percentuale di adolescenti quindicenni, in cui i due sessi sono egualmente rappresentati, che ha già avuto rapporti sessuali completi. Come si spiega il fenomeno?
“La domanda che io mi sono posta ripetutamente - spiega L. Finzi - ascoltando ragazzi e ragazze che mi parlano giovanissimi/e (14-15 anni) dei loro rapporti sessuali è: perché, quando ne parlano, non c’è luce nei loro occhi? Nel raccontare queste storie non compaiono sentimenti: amore, cotte, innamoramenti, ma solo frasi come: ‘ci sono andata/o stata/o perché mi piaceva, mi attirava... volevo vedere cosa provavo...’ ( e tra l’altro il verbo è usato sempre al passato). A volte ne parlano spontaneamente senza vergogna, come se fosse una semplice attività quotidiana: ‘quello/a mi piace e me lo sono fatto - e la psicoanalisi direbbe che questo è un modo di esprimere l’altro come una sorta di possesso narcisistico, infantile - ma poi la storia è finita subito; boh, non lo so perché... non ci siamo più visti né messaggiati’”.
È una voglia, appunto, che sembra nascere da una specie di comando esterno che impone una sorta di rituale di crescita, saltando i necessari passaggi evolutivi; ancora L. Finzi: “ Insomma sembra quasi che il far sesso diventi, all’epoca attuale, il primo compito da assolvere per separarsi dall’infanzia: come se il primo rapporto sessuale assurgesse a simbolo di tale distacco; e noi percepiamo quel corpo desiderante ancora immacolato che si sposta di qua e di là, che fluttua attraverso esperienze a volte misconosciute, alla ricerca di un qualche appoggio, di un legame: come se arrivare a rapporti intimi permettesse una qualche relazione con se stessi quando ancora si viaggia alla ricerca della propria identità e il sé corporeo si sta solo cominciando a plasmare”.
Ma accanto a questo c’è anche un distorto bisogno di rapporto, di relazione, per reagire al senso di solitudine che definisce la vita di tanti adolescenti, e non solo stranieri; e forse questa modalità di esprimerlo è anche da collegare alla precoce erotizzazione dei giovanissimi, di cui il mondo adulto ha le sue responsabilità, dall’abbigliamento, al banale e diffuso compiacimento di fronte allo scimmiottamento dei comportamenti sentimentali degli adulti da parte dei bambini, alla sconsideratezza di lasciarli senza controllo troppo piccoli di fronte agli stimoli telematici del cybersesso, difficili da integrare in una sessualità ancora non definita da una identità compiutamente raggiunta. L. Finzi aggiunge anche tra le cause la confusione dei ruoli che vede come uno degli esiti problematici della “famiglia affettiva” di cui parla G. P. Charmet, in cui spesso non esiste il freno rappresentato dall’efficacia normativa di adulti autorevoli e credibili: “L’idea di appartenenza alla generazione-giovani attualmente non è più fondata su ragioni di opposizione agli adulti e la precocità sessuale nell’adolescenza attuale, a mio parere, può situarsi in linea con quell’appiattimento generazionale determinato dal rapporto troppo spesso “amicale” genitori-figli”.
Ne nasce così quel binomio stridente tra l’aspetto infantile e l’agire adulto che necessariamente è un agire privo dell’adeguato investimento emotivo, come riferiscono gli operatori: ci sono ragazze che si presentano ripetutamente in consultorio a chiedere la pillola del giorno dopo giustificando la richiesta con la solita scusa della rottura del preservativo e, consigliate di prendere in considerazione l’assunzione della pillola contraccettiva perché più salutare, sono restie per la paura di ingrassare; quando sorgono discussioni tra ragazzi di scuola media sulle possibilità di incorrere in qualche gravidanza, si può trovare il maschietto che considera il problema inesistente perché l’ospite indesiderato si può “buttare via”. E spesso la mancanza di investimento emotivo si trascina anche in età più adulte: “Una volta mi è stato chiesto un intervento – racconta V. Napoli – in una scuola che si occupa di preparare il personale che va a lavorare nelle strutture sanitarie e mi ha colpito la scissione tra gli aspetti tecnici e quelli legati alla persona presa nel suo insieme. Per esempio si parlava del corso di preparazione al parto e dell’allattamento e un ragazzo mi aveva chiesto se dopo il parto la donna può avere rapporti sessuali; uno si aspetta una visione più generale, che coinvolge anche l’aspetto psicologico, e invece a lui interessava solo l’aspetto tecnico”.
Anche C. Modafferi durante il tirocinio svolto presso il Centro Giovani della Fiumara è entrata in contatto con il fenomeno delle interruzioni di gravidanza precoci; confessa il suo stupore iniziale di fronte ad un fenomeno che credeva molto più contenuto grazie alla prevenzione e aggiunge: “ Mi stupiva il fatto che a volte non fosse la prima interruzione, ma la seconda e a volte la terza. Quello che poi mi sorprendeva era la mancanza di mentalizzazione: la sensazione era che per loro fosse un po' come togliere un dente, senza pensare alle conseguenze sul loro apparato genitale. Mi rendevo però anche conto che lì in accoglienza, di fronte all'emergenza, un predicozzo fosse inopportuno; a volte mi sembrava anche un po' una sfida al mondo adulto...”.. E in effetti l’interruzione di gravidanza nelle giovanissime può assumere l’aspetto di un messaggio relazionale rispetto alla famiglia; un modo per comunicare la propria insicurezza e incapacità di prendersi cura di sé, mascherata dall’affermazione di un potere decisionale autonomo che ovviamente crea non poche angosce. “Abbiamo il caso – racconta L. Finzi – di una ragazza minorenne incinta che si è presentata con il suo ragazzo, ha deciso di tenere il bambino e poi, all’ultimo momento, ha deciso di darlo in adozione... sono queste le difficoltà che al Centro Giovani dobbiamo affrontare e che coinvolgono tutti gli operatori, la ginecologa, lo psicologo, l’assistente sociale, l’ospedale, l’eventuale ostetricia...”.
Anche il cosiddetto bullismo può essere ricondotto all'incapacità di verbalizzare disagi, emozioni; infatti un tempo era definito tale quando riguardava bambini piuttosto piccoli, mentre nel caso di ragazzi delle scuole superiori era considerato un atteggiamento vicino alla delinquenza; oggi viene fatta rientrare in questa definizione anche quella che in realtà è una tendenza di alcuni adolescenti alla prevaricazione, ben presente anche nel mondo adulto e che, complici la perdita di autorevolezza del mondo adulto e le forme tecnologiche di comunicazione che hanno impoverito il linguaggio, si esprime con minori freni anche nelle scuole superiori e preoccupa educatori e istituzioni. L’impressione è che il fenomeno, nell’immagine che si è imposta a livello di opinione pubblica, sia sovradimensionato e si produca dall’incontro tra la solitudine e le difficoltà di certi adolescenti da un lato e l’ansia elevata all’ennesima potenza di tanti genitori. L. Finzi ha colto questo aspetto del fenomeno. “Mi ha telefonato la vice-prefetto per sapere se al Centro Giovani abbiamo segnalazioni di bullismo. In effetti non sono così alte, però recentemente ho visto una madre che è venuta perché suo figlio alle medie è vittima di episodi di bullismo e cambia continuamente scuola. E non è la prima volta che mi trovo di fronte a situazioni di questo genere, in cui un problema non affrontato in modo adeguato si amplifica. Si tratta di madri ansiosissime, che lavorano, devono seguire la famiglia e non sanno come affrontare un problema di questo tipo e, anziché coinvolgere il marito e provare a sostenere il figlio e aiutarlo a difendersi, lo spostano, facendolo alla lunga diventare un fobico della scuola. Si tratta di genitori ansiosi all’ennesima potenza che si fanno in qualche modo circuire dai figli e questo è secondo me l’aspetto più allarmante, il fatto che il figlio diventi più forte del genitore... quello che cambia continuamente classe e scuola diventerà uno che farà sempre quello che vuole, a fronte di genitori vittime”.
Anche il comportamento deviante in senso più specifico è carico di valenze comunicative, come sperimentano quotidianamente gli operatori dell’USSM. C. Cavicchia così lo spiega: “I ragazzi si esprimono spesso in modo paradossale. La stessa azione deviante, se per alcuni rappresenta probabilmente una crisi di passaggio nel quadro di un processo di crescita che, banalizzando un po’, potremmo considerare nella norma, in molti casi può invece essere un campanello d’allarme ed esprimere un disagio più profondo. In ogni caso, spesso, i comportamenti antisociali rappresentano un richiamo all’altro, una sorta di segnale emesso affinché qualcuno si accorga dei bisogni sottostanti ed in tal senso, come teorizzato da Winnicott, rappresentano anche un’espressione di speranza”.
Assumere un atteggiamento “da grande” per nascondere in realtà insicurezze e sofferenze è un meccanismo alla base dei molti comportamenti a rischio diffusi tra gli adolescenti, non ultimo l’uso di alcol o di sostanze stupefacenti, come spiegano, nel sopracitato convegno, Simona Traverso e Laura Grondona, rispettivamente psichiatra e psicologa del SeRT, che lavorano in collaborazione con il Centro Giovani,: “In un mondo dominato dalla cultura della velocità, del consumo rapido, gli adolescenti tendono ad adeguarsi, ad accelerare, ad immagazzinare informazioni, stimoli, competenze. Avere maggiori competenze spesso diviene una copertura alla fragilità che li contraddistingue; l’incertezza è acuita dal fatto che, in un’epoca di precarietà, i progetti di vita rimangono nebulosi e distanti e non si vedono all’orizzonte mete raggiungibili e definite su cui costruire elementi identitari e prove di verifica delle proprie attitudini e capacità. Il messaggio che passa è che coltivare ideali, accalorarsi in ideologie e battaglie sociali sia inutile e frustrante e che sia meglio soddisfare immediatamente i propri bisogni e desideri. In questa atmosfera ci è sembrato di vedere come spesso i ragazzi cerchino di adeguarsi mirando a possedere tutto ciò che li può gratificare tentando di reggere i ritmi proposti, a volte con fatica o poco convinti, altre bloccandosi o cercando scorciatoie [...] Quelli tra loro meno in grado di essere in contatto con la propria sofferenza o si fanno sopraffare e si chiudono, si isolano, si nascondono evitando il confronto (chiusura in camera con il PC, ritiri scolastici, somatizzazioni) o tendono a negarla o a scavalcarla, esponendosi così a rischi di vario genere, per esempio cercando un supporto esterno nelle sostanze stupefacenti quale strumento per ottenere una “attivazione emotiva” e by-passare le proprie fragilità e incapacità, per essere più allegri, più socievoli, stare meglio in compagnia, senza avere la percezione di una dipendenza. Spesso l’uso di sostanze viene anche percepito come “status sociale”, simbolo di appartenenza ad un gruppo, elemento non di disvalore, ma di conformità sociale; a volte sostituisce l’uso di ansiolitici, perché vi sono ragazzi che usano le droghe leggere alla sera per addormentarsi”. Le due operatrici hanno elaborato sul campo il senso del loro lavoro con gli adolescenti e lo spiegano citando G. P. Charmet: si tratta di “venire in soccorso della mente dell'adolescente, impegnata giorno e notte nel processo di simbolizzazione... nel tentativo di trasformare in pensieri e parole un mondo caotico e ricco... per definire l'identità, delimitare i confini, inventare soluzioni originali, liberare dalla sudditanza alle aspettative dell'ambiente. L'adolescente (deve essere) aiutato a trasformare in pensieri il proprio corpo e il suo preoccupante destino biologico”.
E i genitori?
Le domande e i problemi degli adolescenti si intrecciano inevitabilmente con quelli dei genitori, in un vissuto che se è faticoso per gli uni non lo è certo di meno per gli altri. Madri e padri, attraversati da nuove sfide e ataviche preoccupazioni, schiacciati dai frenetici ritmi lavorativi e famigliari, si trovano a doversi periodicamente interrogare, a ridefinire metodi, strategie educative, oscillando tra disponibilità al dialogo, sorretta da una idealizzazione del figlio/a, e senso di impotenza, rigurgiti autoritari e abdicazione di ruolo. E di questa difficoltà si rendono conto Servizi e Centri che a vario titolo si occupano di adolescenza, dal momento che spesso prevedono sportelli o progetti per i genitori, come avviene ad esempio per il Centro Giovani di via Riboli o per il Centro Levrero.
Secondo S. Canepa la difficoltà maggiore che incontrano è quella di sempre, affrontare la separazione dal bambino che si sta trasformando presentando scenari inediti che spesso non combaciano con l’immagine che i genitori si erano costruiti, difficoltà che oggi però è acuita dalla precarietà: “Il fatto che manchi il lavoro è una preoccupazione che non costringe i genitori a prepararsi come quando il figlio nasce la prima volta. Se, quando è il momento di consegnarlo al mondo, il mondo non c’è... Prima c’erano strade più tracciate e rassicuranti, la scuola, i primi lavoretti, la patente, il fidanzamento...”. Oggi in effetti i genitori non possono più disegnare nelle loro menti il futuro delle nuove generazioni, il cui destino è oggetto di una costruzione personale complessa e difficilmente definibile a priori; è una mancanza di direzionalità che necessariamente influisce anche sullo stile educativo e rende poco convincente qualunque atteggiamento direttivo e normativo. “Anche la scuola – continua S. Canepa – diventa una estensione di questo meccanismo. Innanzitutto in questo ambito l’ansia del genitore è proiettiva: il figlio va a scuola, ma ci va anche il genitore che quando va al cospetto di un insegnante è influenzato dal proprio vissuto scolastico con cui deve fare i conti. E spesso il confronto diventa una lotta ingaggiata fin dalle scuole elementari, anche perché si crea una sovrapposizione di ruoli dal momento che alla scuola viene delegato anche il compito educativo e normativo. “Non so più come fare, ci pensi lei...” e quando la scuola ci pensa e si mostra veramente normativa, allora c’è la reazione negativa”.
In effetti i genitori di oggi, quando non sono assenti, ‘vanno a scuola’ con i figli, condividono le loro ansie, partecipano alle gratificazioni e soffrono per le frustrazioni della valutazione, vivendo con loro successi ed insuccessi. La scuola diventa il luogo elettivo in cui aspettative e timori appartenenti alla rete delle relazioni famigliari si mescolano a conflitti e bisogni in realtà attinenti alla rete delle relazioni sociali. Ne deriva che spesso i genitori non siano d’aiuto agli insegnanti e tendano ad intervenire per proteggere i figli con una ‘funzione-ombrello’ che si prolunga sempre più nel tempo, fino a sconfinare nella vita adulta. È una funzione eccessivamente protettiva che rivela una sostanziale richiesta di gratificazione affettiva, accompagnata dalla tendenza a negoziare regole mai difese da sanzioni e a reperire strumenti atti a smussare le conflittualità, con la conseguenza di trasmettere ai figli una scarsa tolleranza della tensione e del dolore. “L’impressione generale – conferma C. Modafferi – è che difficilmente si riesca a conciliare frustrazione e protezione. Si va da un eccesso all’altro: dal permettere per esempio al bambino di dormire sempre nel lettone perché non si sopporta che pianga e si lamenti, all’eccesso opposto di farlo piangere fino allo sfinimento... ma ciò che prevale è alleviare ogni difficoltà. L’adolescenza, però, è un periodo di forti frustrazioni, di urto contro i limiti e se non sei attrezzato è un problema. La vita pone dei limiti e il genitore non può eliminarli tutti. Rientra in questo scudo protettivo anche la tendenza alla medicalizzazione di ogni piccola sofferenza; dal banale mal di testa all’ansia pre-esame, tutto tende ad essere risolto in modo farmacologico”. La cosa è confermata dai risultati dell’inchiesta regionale già citata, da cui risulta che un terzo dei giovani riferisce segni di malessere psicofisico e più della metà ricorre a farmaci da automedicazione.
Anche l’aumento considerevole di diagnosi di DSA (disturbi specifici di apprendimento) che da un po’ di anni si riscontra nelle scuole, appare collegato a questa funzione-ombrello assunta dai genitori: “La mia impressione – osserva C. Modafferi – è che siano effettivamente sovradimensionate. Quelle che ai miei tempi erano difficoltà oggi sono patologie. Me ne rendo conto non tanto in Consultorio quanto all’Università, perché soprattutto in occasione delle prove di accesso arrivano una quantità spropositata di certificati, spropositata soprattutto se si confronta con la statistica presente nei manuali diagnostici”. Secondo V. Napoli le difficoltà di apprendimento e i disturbi specifici sono spesso cartine di tornasole di altre problematiche, non veri e propri handicap, per cui sarebbe più produttivo affrontare la complessità di situazioni di cui sono un sintomo: “Spesso invece l’esito è una diagnosi che resta incollata al soggetto. Una volta era proprio il contrario, anche in situazioni gravi si tendeva a non fissare il soggetto in una diagnosi; oggi invece essa evita alle famiglie di mettersi in discussione. I genitori arrivano con il figlio con l’evidente convinzione che il problema sia e rimanga del figlio, senza neppure essere sfiorati dall’idea che possa diventare un problema risolvibile all’interno della famiglia, della scuola, del gruppo”. C. Modafferi riporta un caso esemplificativo: “Ricordo una ragazza con un lieve disturbo dell’attenzione, la cui madre voleva a tutti i costi la certificazione di questo disturbo, come se in qualche modo le difficoltà che c’erano nell’ambito relazionale potessero essere giustificate da un certificato. E la ragazza non voleva stare al gioco, non voleva essere diversa a scuola, dal momento che non aveva problemi particolari. Ma noi capivamo che per la madre era fondamentale, perché così tutti gli sbagli non sono tali, perché c’è un problema certificato; non ci sono problemi relazionali, ma è lei che non funziona, non noi nella relazione con lei”.
Le difficoltà dei genitori nascono anche dal fatto di non essere più l’unico punto di riferimento dei figli, perché oggi la funzione educativa è condivisa con molti altri soggetti sociali, con i quali gli adolescenti sono in rapporto e con i quali negoziano le regole e le strategie della loro presenza. In questa situazione lo specifico dei genitori è essenzialmente la storia della loro relazione affettiva con i figli, terreno quanto mai insidioso e difficile su cui si consuma tutta la difficoltà di comunicazione che spesso lamentano.
- Napoli indica proprio nella difficoltà ad affrontare il dialogo l’elemento che spesso caratterizza oggi il rapporto tra genitori e figli adolescenti: “Si parla tanto di vicinanza con i figli, di dialogo, in realtà ho visto molta difficoltà, soprattutto a far sì che la disponibilità al dialogo non sconfini, ma si coniughi con l’autorevolezza, con il rispetto dei ruoli. E poi colpisce sempre molto vedere tanti ragazzi chiusi sul loro cellulare, anche in famiglia, e genitori che usano le nuove tecnologie come sostitutive di una relazione. Mi è capitato di recente di assistere ad una scena emblematica: per tenere tranquillo il bambino sul seggiolone la madre gli ha messo davanti un video con delle riprese che lo ritraevano con i genitori in un altro momento della vita famigliare. È indicativo a mio parere di una difficoltà dell’esserci.... se penso che per anni si è data molta importanza al problema dei pidocchi, anziché segnalare problemi relazionali...”.
È la stessa incapacità di dialogo che impedisce di contenere i conflitti di coppia ad un livello adeguato: “Assistiamo spesso – continua V. Napoli - alla tendenza dei genitori a mettere di mezzo e usare i figli nei loro conflitti di coppia, mescolando i ruoli: un conto è il ruolo del genitore, un altro è quello nella coppia”. E in questa prospettiva spesso i figli diventano il parafulmine delle tensioni famigliari, il catalizzatore dei fallimenti degli adulti. È ancora C. Modafferi a ricordare un caso significativo. “Mi aveva colpito moltissimo una ragazza, con una situazione famigliare complicata per la separazione dei genitori e aggravata da problemi economici per una questione di debiti, che era stata trascinata di peso dalla madre perché aveva tentato di buttarsi dalla finestra; mi aveva colpito molto perché lei aveva giustificato il gesto dicendo che non ne poteva più, che continuava a sentirli urlare e in tutto quel casino aveva pensato in quel modo di liberarsi da tutto. La difficoltà quindi era legata al contesto, ma la famiglia aveva portato lei. E la ragazza per un periodo ha approfittato dello spazio dei nostri incontri per sistemare un po’i suoi pezzi, ma erano connessi a un puzzle molto più grosso e complicato. Questo episodio mi ha fatto anche capire che spesso il desiderio dei diciotto anni è come una chimera; in quel caso non c’era una radicata e patologica tendenza suicidaria, ma solo il prepotente desiderio di togliersi al più presto da una situazione, senza intravedere, nell’emozione forte del momento, le conseguenze del gesto”.
Spesso le ansie dei genitori di non capire i figli e le difficoltà di esercitare un controllo e imporre regole si declinano in base ai nuovi stili di vita dovuti all’uso delle tecnologie. “Come faccio ad impedirgli di...” è una frase ricorrente, di fronte all’invasiva presenza di mezzi telematici. Al tempo stesso però l’analfabetismo informatico in cui si consuma oggi tanta distanza tra le generazioni, fa sì che tanti genitori si sentano paradossalmente più tranquilli quando il figlio è nella sua stanza davanti al computer, piuttosto che saperlo fuori in motorino o magari imbarcato in cattive compagnie. E questo perché non si rendono conto da un lato del fatto che parole, immagini, azioni compiute su Internet possono essere pericolose quanto quelle agite nella realtà fisica offline (cyber-bullismo, adescamenti, ecc), ma anche che possono ledere la stabilità psicofisica di una persona creando fenomeni di dipendenza. L. Finzi racconta il caso limite di una ragazzina che giocava col computer in compagnia del padre fino alle 4 del mattino in giochi di ruolo e diceva che il suo era un padre ideale perché le lasciava fare tutto quello che voleva. Quando poi i disturbi si evidenziano, allora sull’urto dell’emergenza e dei sentimenti contraddittori che la accompagnano (ansia, senso di impotenza, rabbia) ci si rivolge ai Servizi in cerca di aiuto: “Un giorno al Centro Giovani – racconta ancora L. Finzi – intercetto una signora che accompagna il figlio, un ragazzo di 16/17 anni dall’aspetto anemico, pallidissimo, con i capelli lunghi. Mi informa che sta cercando la dott.ssa Traverso, la psichiatra, perché il figlio è videodipendente. Mentre le procuro il numero per contattarla, porgo al ragazzo la locandina del Centro Giovani illustrandogli il funzionamento del Servizio. Al che la mamma interviene bruscamente e dice: “Che cosa gliela dà a fare? Tanto lui parla solo con il computer!” Io insisto, sollecitando il ragazzo a venire se ne sente il bisogno e la madre, preso il numero, spazientita se ne va trascinando il ragazzo come fosse una sua appendice. Poi ho parlato con la Traverso e mi ha detto che di situazioni così se ne vedono tante. Genitori rabbiosi, che si svegliano troppo tardi... A me quel ragazzo sembrava malato anche fisicamente e questa madre sembrava dicesse: lui mi fa venire qui, mi fa perdere tempo, parla solo col computer: e questa che cosa si rivolge a lui a fare, parli con me.. sembrava che per lei il figlio fosse un pezzo rotto da aggiustare. E poi colpiva l’aggressività di questa madre, era più arrabbiata che in ansia... e il ragazzo era troppo piccolo per avere una madre così arrabbiata”.